La rappresentazione della donna nella criminalità organizzata è stata, nel corso dei decenni, un elemento di notevole evoluzione nel panorama cinematografico e televisivo. La figura femminile all’interno di questi contesti ha subito una trasformazione significativa, passando dall’essere un mero complemento maschile a una presenza autonoma e sfaccettata, capace di assumere ruoli di rilievo all’interno delle trame narrative. La donna, nel contesto della criminalità organizzata, ha assunto diverse sfumature e significati, incanalati attraverso una varietà di personaggi e storie che hanno contribuito a ridefinire il suo ruolo e impatto nella narrazione del crimine organizzato.
Capire il ruolo della donna nella rappresentazione della criminalità organizzata è essenziale per comprendere come la narrativa cinematografica e seriale abbia affrontato e trasformato questo tema nel corso degli anni.
Spesso, concetti quali arroganza, tracotanza e prevaricazione entrano in conflitto con l’immagine della donna, spesso dipinta come calma, sottomessa e servizievole. Le società orientali e occidentali, nel corso dei secoli, hanno adottato dogmi che limitavano la vita e la libertà delle donne, negando loro la possibilità di essere associate a tali aggettivi. Questo processo ha generato un’immagine distorta della donna, lontana dall’idea di rettitudine e innocenza e piuttosto associata al concetto di malvagità e peccato: la tentatrice che sussurra, il serpente che induce a consumare il frutto proibito. È così che nasce il concetto della femme fatale nella cinematografia, astuta come l’abito che lascia intravedere la pelle e tagliente come il tacco alto.
Il cinema classico è costellato di donne affascinanti, la cui capacità di seduzione è affiancata dalla determinazione nel raggiungere i propri obiettivi. Personaggi come l’esotica Mata Hari interpretata da Greta Garbo, l’androgina Lola Lola di Marlene Dietrich o la manipolatrice subdola Barbara Stanwyck in “La fiamma del peccato” incarnano questa forza femminile. Solo in seguito, con l’abolizione del Codice Hays e la rivolta del cinema, le donne hanno potuto emergere come criminali a tutti gli effetti, non più semplici compagne degli uomini ma individui che agiscono indipendentemente.
Il film “Gangster Story” di Arthur Penn (1967), che narra la storia di Bonnie e Clyde, ha aperto la strada a una rappresentazione più autonoma delle donne. Tuttavia, non le ha ancora ritratte come assassine solitarie, bensì come individui che trovano supporto l’uno nell’altro. Da “Thelma & Louise” (1991) a produzioni più recenti come “Widows” (2018), le donne criminali non sono più rappresentate come sole vagabonde, ma come figure altamente competenti nel mondo criminale.
Il ruolo della donna nella rappresentazione della criminalità organizzata in Italia
In Italia, il ruolo della donna nella rappresentazione della criminalità organizzata è cambiato in modo relativamente tardivo nel cinema e nelle serie. A lungo, l’Italia ha ammirato le storie criminali provenienti dall’oltreoceano, considerando i cattivi stranieri più affascinanti dei propri. Tuttavia, con il tempo, il panorama italiano ha iniziato a esplorare le proprie radici per offrire una rappresentazione autentica.
Il primo passo è stato compiuto da un (italo)americano, Francis Ford Coppola, con “Il padrino”. Successivamente, quando si è compreso che vi era spazio anche in Italia per racconti avvincenti, si è iniziato a scavare più a fondo nelle proprie storie. Da qui è nato un processo che ha coinvolto le produzioni italiane, visibile soprattutto nelle trame delle serie che narrano la criminalità organizzata. Tra queste, spiccano “Gomorra” e “Suburra”, che hanno aperto la strada al genere mafia-drama.
Nella serie “Gomorra”, ad esempio, il ruolo femminile acquisisce progressivamente centralità. La storia della famiglia Savastano, tratta dall’omonimo libro di Roberto Saviano, vede un passaggio di potere dalla figura di don Pietro a sua moglie Imma, matriarca indiscussa.
Successivamente, emergono personaggi come Scianel e Patrizia: mogli, madri e boss di quartiere. Sono figure femminili astute e capaci di prendere il comando sia in casa che al di fuori, contribuendo a ridefinire i ruoli di genere. Questa rappresentazione, sempre meno centrata sull’uomo, si rafforza man mano che la storia avanza.
Da qui in poi, si aprono nuove prospettive sulle storie della criminalità organizzata, includendo elementi reali nella finzione. Film come “A Chiara”, diretto da Jonas Carpignano, esplorano la condizione femminile all’interno delle radici familiari e l’impedimento all’evoluzione delle realtà criminali dal punto di vista femminile.
Questi racconti danno voce a donne che, invece di cercare il potere, cercano di liberarsi dall’ambiente in cui sono cresciute e intrappolate. Questa incapacità di reagire ha generato un’altra tendenza: il miscelare il reale con l’immaginario allo scopo di ribaltare l’immobilità e la subordinazione femminile. Così, la serialità e la cinematografia italiana hanno dato vita a donne di mafia, di camorra e di ‘ndrangheta tratte dalla realtà, vendicative, spietate e crudeli. Non più solo compagne degli uomini o figlie dei boss, ma attivamente coinvolte nella criminalità organizzata.
Tuttavia, la vera svolta si manifesta quando queste storie comprendono che il ruolo attivo delle donne nella mafia non riguarda solo il raggiungimento del potere come boss. È come se queste narrazioni, tra finzione e fantasia, avessero capito che la vera forza, la vera importanza nel raccontare le storie della mafia, risieda nel smantellare l’idea di individui criminali invincibili, restituendo l’umanità al centro della narrazione.
Un esempio tangibile è rappresentato da Rosa Di Fiore, trasformata nel personaggio di Marilena Camporeale, interpretato dalla cantante Elodie nel film “Ti mangio il cuore”. Questo film rivisita il ruolo di una madre tra le prime pentite della mafia garganica, diventata collaboratrice di giustizia nel 2008. Questa figura, la “Elena di Troia” che ha scatenato una guerra tra i Tarantino e i Ciavarella, ha deciso di confessare e pentirsi, interrompendo il ciclo di violenza che avrebbe potuto condannare i suoi figli.
L’obiettivo è spezzare questa catena di violenza ereditaria. È ciò che cerca anche Rosa, interpretata da Lina Siciliano in “Una femmina”. Dopo aver assistito alle conseguenze del pentimento della madre, si impegna a evitare che lei e i suoi figli subiscano lo stesso destino. La rappresentazione femminile nella lotta alla ‘Ndrangheta diventa una vendetta personale, disinteressata alle leggi non scritte ma considerate sacre dalle famiglie calabresi e dalla mafia in generale.
È stato “The Good Mothers”, tratto dal libro di Alex Perry, a trovare un equilibrio delicato in questo difficile spostamento tra le sfere della mafia e dei pentiti. Questa narrazione corale mostra quanto sia grande il ruolo della donna in un contesto considerato prevalentemente maschile, dove la presenza femminile può inserirsi senza essere percepita come minaccia.
Donne, madri, figlie che, in “The Good Mothers”, si affidano a un magistrato (sebbene invenzione, a fini di reportage semi-realistico della serie) e mostrano come sia possibile farlo senza che la parola “mafia” sia associata a connotazioni negative tipicamente riferite alle donne. Se la mafia è sinonimo di arroganza, tracotanza e prevaricazione, essere donne, madri e figlie significa essere sottovalutate e quindi diventare la miglior arma possibile.
D’altra parte, questo può anche rappresentare la capacità di liberarsi da un male così profondo. Dimostrare di saper maneggiare gli strumenti della guerra, ma scegliere consapevolmente di non farlo. Questa è stata la dichiarazione di Letizia Battaglia in una delle sue ultime interviste, la fotografa che ha immortalato la mafia, come descritto nel documentario del 2019 “Shooting the Mafia”: “Le donne oggi sono più libere e gli uomini ne hanno paura”. Mentre gli uomini temono, le donne non hanno paura di niente.