Tutti lo dicono, pochi lo pensano, nessuno, probabilmente, farà qualcosa: “Una donna al Quirinale” è uno slogan pieno di sentimento e buone intenzioni, ma, come al solito, non impegna. Candidate senza nome né volto, simpatiche mascotte al servizio di una competizione tutta maschile.
Raramente, anche andando a scavare nel corposo materiale che la nostra Repubblica ogni giorno ci sventola sotto il naso, ho sentito slogan più vuoti e idioti di “Ci vorrebbe una donna al Quirinale”.
Aveva iniziato qualche tempo fa Giuseppe Conte, a dire che lui alla Presidenza della Repubblica avrebbe visto bene una donna. Poi gli avevano fatto eco altri esponenti politici, seguiti a ruota da giornalisti, intellettuali e altri addetti ai lavori, tutti concentrati a battersi il petto e a dire, commossi, “Sarebbe bellissimo: una donna Capo dello Stato”. Anche in questo grande momento di intenerimento collettivo, però, la politica testosteronica e maschiocentrica del nostro Stivale non aveva trascurato di portare avanti l’ideale supremo: il patriarcato.
Il maschilismo di “Una donna al Quirinale”
Eppure ce ne vuole, si potrebbe pensare: essere accusati di misoginia proprio quando si fa di tutto per dimostrare l’apertura dei propri orizzonti nei confronti di una categoria discriminata. Non prendiamoci in giro, però: quanti e quali nomi di candidate serie sono stati fatti in questi mesi per dare concretezza allo slogan del “Ci vorrebbe una donna?”. Nessuno, praticamente, se non forse quello della Ministra della Giustizia Marta Cartabia, ma con intenzioni fragili e scoordinate.
Uno slogan gratis
Il problema, come sempre, è che il “Ci vorrebbe una donna” è gratis. È elegante, cavalleresco, utopistico, ma non impegna. È come dire che siamo contro l’inquinamento o a favore dell’ambiente: sì, ma in concreto, che facciamo? Lo slogan per un’inquilina al Quirinale, dunque, non è altro che pink washing, una finta adesione a un valore o a una battaglia solo per espandere il proprio consenso elettorale, un po’ come quando i marchi di vestiti a giugno riempiono gli scaffali online e offline di t-shirt e calzini rainbow a favore del mese del Pride e, poi, passata la festa, gabbatu lu santu. A nuovo Presidente eletto, quando anche chi si faceva promotore di una candidatura femminile avrà lasciato decadere le deboli armi e intenzioni per appoggiare un nome virilmente condiviso, allora ci si guarderà, sommessamente, battendosi il petto e dicendo: “Peccato, un’altra occasione sprecata”.
Senza volto, senza nome
Un’altra questione non indifferente, in aggiunta, è quella del linguaggio: ma che diamine significa “una donna”? Ancora una volta, un essere rassicurante e rinfrancante perché senza volto né nome che, di nuovo, non vincola. Guai a fare un passo più avanti e a mettere dei nomi sul tavolo: no, si rischia davvero che una donna, con un nome e un cognome, poi al Colle arrivi davvero. Da quell'”una donna”, emerge prepotente e ancora una volta vigliacco il desiderio di voler dare, al massimo, un contentino, una quota rosa pensata male e applicata peggio. Sì, perché, se mai accadesse appunto che “una donna” arrivasse a essere Presidente della Repubblica, poi ci si potrebbe tranquillamente beare nella consapevolezza che no, il nostro Paese non ha un problema di pari opportunità, perché avremmo addirittura “una donna” come Capo dello Stato.
Diritto a essere considerate e scartate
Perché i candidati uomini hanno diritto a essere presi in considerazione con i loro nomi, volti e trascorsi politici, mentre invece le donne sono private di questa facoltà? Perché nessuno avanza dei nomi femminili e dice di questi che non sono condivisi o che sono improponibili? Ci si limita alla carezzina sulla testa e a dire “Sarebbe bello”, per poi tornare nella stanza degli uomini, adulti e potenti, e a fare sul serio con i nomi dei maschi. No, sarebbe bello avere dei nomi davanti e poterli considerare, valutare, appoggiare o magari anche scartare, esattamente come quelli degli uomini. Che le timide proposte su Marta Cartabia, Emma Bonino e le pochissime altre citate in queste settimane potessero essere vagliate esattamente con gli stessi criteri che si utilizzano per gli uomini.
Non succede, ma se succede
E se invece accadesse? Cinque minuti e i titolisti si lancerebbero nelle consuete opere di mammificazione e infantilizzazione a cui ci abitua da sempre la stampa: “Una mamma al Quirinale”, perché sia mai anteporre qualcosa alla funzione primaria e indispensabile di dare figli al Paese. In alternativa, in caso di una presidente senza prole, bisognerebbe affilare le penne e scavare a fondo dietro a quella bizzarria di non essere madre. E poi ancora via di “Giovanna, la prima donna al Colle”, “Michela è Capo dello Stato”, “Presidentessa Maria” e altre amenità da prima pagina in cui, tassativamente, i cognomi delle donne vengono sempre tagliati, come se si trattasse di nostre amiche, sorelle o cugine. Simpatiche e innocue mascotte senza identità, pronte a essere giudicate per il colore del tailleur o la nuova messa in piega e non per la bontà del loro operato.
Elisa Ghidini