“Batterioterapia fecale”, “trapianto di microbiota intestinale”, “trapianto di feci”: tutti e tre indicano – di fatto – il passaggio di batteri “buoni” dall’intestino di un paziente sano a quello di uno malato. Il primo è da considerarsi a tutti gli effetti un donatore di cacca, e grazie a persone come lui oggi si possono curare infezioni croniche, persino salvare delle vite.
Ciò che può offrire un donatore di cacca, forse non gode di particolare stima; eppure per alcuni medici rappresenta un bene prezioso, a tal punto che esistono oggi delle “banche” in giro per il mondo, dalle quali cliniche e ospedali si riforniscono per trattare i propri pazienti.
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“Vendo la mia cacca per 7000 dollari all’anno“: così BuzzFeed News raccontava la vita di un donatore di cacca. In realtà dietro c’è molto altro, e lo scoprirete in questo articolo.
La domanda n° 1, quella che anche tu ti stai ponendo: a che serve un donatore di cacca?
Con trapianto fecale, o di microbiota intestinale (in inglese Fecal Microbiota for Trasplantation – Ftm) si indica il passaggio con cui le feci di un donatore appositamente selezionato, vengono raccolte e lavorate in laboratorio. Il prodotto finale è una sacca – un po’ come quelle di plasma – contenente miliardi di batteri e miceti, che così possono essere conservati fino all’utilizzo, vale a dire l’infusione tramite colonscopia o clistere (ma in altri casi, addirittura un sondino naso-gastrico). Questo “regalo” che si fa a un paziente malato, si mantiene sano e stabile per oltre 21 settimane, tanto da consentire alla sua flora batterica di ripristinarsi.
Per quanto ancora poco conosciuta, ancor meno ri-conosciuta (dalla comunità dei medici) e quindi diffusa, questa pratica viene già adottata in Italia, in particolare al Policlinico Gemelli di Roma, dove nel 2017 sono stati addirittura sei, i bambini affetti da diversi disturbi, in questo modo guariti.
Risolti i primi dubbi, facciamo un po’ di storia:
In realtà, pare che già nell’antica medicina tradizionale cinese fossero noti i benefici degli escrementi altrui, e anche fu così – grazie al consumo delle feci fresche di cammello – che i soldati impegnati in Africa durante la Seconda Guerra Mondiale sopravvissero alla dissenteria batterica. Alla fine degli anni Cinquanta poi, un medico chirurgo di Denver (Stati Uniti) tentò il primo trapianto fecale come cura per un’infezione al colon; da lì, pubblicò una ricerca scientifica che a distanza di decenni, Thomas Borody – medico australiano – ha letto, riscoprendo l’importanza di un donatore di cacca quando si tratta di guarire malattie legate all’intestino (e non solo, come vedremo).
L’infezione da Clostridium difficile (un nome, una garanzia):
Fino a ora, l’unico caso certo, appurato, riconosciuto dalla maggior parte dei medici – nonché quello in cui il trapianto fecale è conseguentemente più applicato – è l’infezione da Clostridium difficile. Questo batterio – il cui nome è una garanzia – vive normalmente nel nostro intestino, senza causare particolari danni; il problema è quando i suoi compagni microbi che vivono con lui nell’”ecosistema” della flora intestinale, vengono spazzati via, lasciandolo solo, libero di agire. All’interno dell’intestino esiste infatti un delicato equilibrio, composto da miliardi di microrganismi, ed è proprio alterando tale sistema che iniziano a sorgere problemi, non soltanto a livello di digestione, ma anche di umore, di difese immunitarie, di metabolismo…
L’avrete sicuramente sentito dire: l’intestino è il nostro secondo cervello.
Microbiota: un ecosistema in via di estinzione
Sicuramente siete a conoscenza del pericolo di estinzione che incombe su vari ecosistemi sulla Terra: ecco, la preziosa – nonché unica, differente per ogni individuo – “biosfera” che vive nelle nostre pance, si trova altrettanto a rischio. A dircelo sono gli scienziati, dopo aver confrontato il microbioma delle popolazioni euroamericane, con quello di popoli che vivono ancora più a contatto con la natura. Uno studio sugli Hadza in Tanzania ad esempio, la cui dieta si basa sulla caccia e la raccolta, rivela una varietà di batteri addirittura doppia rispetto a quella di un “occidentale”. Gli Hadza – come ormai rarissime altre comunità nel mondo – vivono evidentemente in maniera più prossima e simile ai nostri antenati: da questi, hanno ereditato il loro ricchissimo patrimonio di flora intestinale.
Dall’altra parte, c’è la società odierna: in cui hanno preso piede una dieta sempre meno varia e disequilibrata, e un uso dilagante degli antibiotici sin dalla prima infanzia. Ecco ricomparire quindi il nostro Clostridium difficile: ad aver sterminato i suoi compagni, alterando l’equilibrio del microbiota nell’intestino, potrebbe esser stata proprio una cura di antibiotici troppo aggressiva.
Veniamo dunque alla figura del donatore di cacca: per i motivi sopra elencati, il candidato ideale non deve aver assunto antibiotici nel precedente periodo, essere ovviamente in ottima salute, seguire una dieta bilanciata.
Come si diventa donatore di cacca?
Forse vi sorprenderà, ma anche in questo caso possiamo vantare delle “eccellenze” italiane: la BBC aveva ad esempio parlato del caso di una ragazza italiana, che ora vive nel Regno Unito, considerata addirittura una “super-donatrice”. Vegana (e per questo alcuni ipotizzano – ma senza che ciò sia stato dimostrato – che spesso i super-donatori seguano appunto questo tipo di dieta), vorrebbe che la gente superasse le “barriere mentali”, unendosi alla comunità dei donatori. Niente sembrerebbe infatti più semplice di una donazione di cacca: a lei basta raccogliere i campioni in un contenitore fornitole dall’ospedale, a cui poi le consegna “sul tragitto per andare a lavoro.”
Inoltre, da qualche anno esistono addirittura delle banche, per custodire questi tesori per la salute di altre persone: la prima è stata fondata nel 2017, nelle Asturie (Spagna), e al momento conta un migliaio di donatori registrati. Collaborano con ospedali negli Stati Uniti, in Canada, in Francia, in Australia, nel Regno Unito e in Nuova Zelanda. “Contribuisci a migliorare delle vite e fai soldi dalla tua pupù” è lo slogan che si legge sul loro sito. Già, perchè in alcuni paesi, è previsto persino un compenso in denaro per chi diventa donatore di cacca: come “ricompensa per lo sforzo”.
E ancora, la “pupù-miracolo” si legge in un video di presentazione della terapia. Sfortunatamente però – come si è detto – i benefici del trapianto fecale, soprattutto per quanto riguarda il Clostridium difficile (che in molti casi viene ancora trattato con la convenzionale cura antibiotica, il che equivale a salvare dei naufraghi rubando loro tutti i salvagenti) non godono ancora del dovuto riconoscimento.
Terapie fai-da-te:
Così, qualcuno sceglie di ricorrere al “fai-da-te”, come il caso di una donna negli Stati Uniti, che nel 2012 – disperata davanti ai “no” dei medici, di tentare quello che era ancora un approccio semisconosciuto – chiese a suo marito di diventare il suo personale donatore di cacca. A lei è andata bene: ha sconfitto il Clostridium difficile, riprendendosi la sua vita, e ha fondato un’associazione per promuovere questo tipo di terapia.
Ma non per tutti potrebbe essere così semplice: se è vero che per diventare donatore di cacca, “più biodiversità (nella flora intestinale) è meglio”, oltre ovviamente alle condizioni d’igiene, e al rischio che si corre di guarire un’infezione trasmettendone tuttavia delle altre, è anche una questione di “incontro”: come per gli organi, hai bisogno del donatore che fa per te.
Oltretutto, la FDA (Food and Drug Administration) ha di recente emesso un’allerta sulla sicurezza del trapianto di microbiota: un paziente è difatti morto negli Stati Uniti, a seguito di un’infezione trasmessagli dal donatore. Fondamentale è diventato quindi per i ricercatori che la difendono, tutelare la validità di una terapia che – se correttamente eseguita – può invece effettivamente salvare delle vite. Proprio questo era l’obiettivo della Consensus mondiale appena pubblicata sulla rivista Gut, a cui hanno contribuito il Policlinico Gemelli di Roma – sotto la guida del professor Giovanni Cammarota e il professor Antonio Gasbarrini – oltre a vari esperti internazionali in quest’ambito della ricerca:
[La batterioterapia fecale] da alcuni anni è allo studio contro l’infezione intestinale ricorrente da Clostridioides difficile non rispondente agli antibiotici, con consolidati dati di efficacia e sicurezza. Ma la sua valenza appare sempre più ad ampio spettro anche per la cura di altre malattie, non solo del tratto digerente.
La Consensus stabilisce quindi linee-guida certe, sin dal momento della donazione (la scelta del donatore secondo criteri rigidi e uniformati, con visite anche periodiche se la donazione è ricorrente), fino all’istituzione di un registro dei donatori; i campioni devono poi essere conservati secondo procedure standardizzate, e non oltre i due anni. Per quanto riguarda invece i beneficiari, è fondamentale che siano seguiti a lungo termine dopo il trapianto, per monitorare eventuali complicazioni.
Il trapianto fecale mostra dunque un indiscutibile, enorme potenziale. Se volete ancora approfondire l’argomento (oltre a cercare l’ospedale più vicino a cui rivolgervi per diventare donatore di cacca) è in uscita persino un film documentario, realizzato da chi – di questo potenziale – ha avuto un’esperienza diretta: in “Designer Shit”, la regista Saffron Cassaday cerca di guarire la sua colite ulcerosa che la tormenta da decenni, arrivando così a esplorare il potere che la nostra pupù ha di influenzare la nostra salute, il nostro benessere (e persino il nostro aspetto fisico, secondo le premesse del film).
Alice Tarditi