Don Abbondio, quel “coniglio” umoristico da Manzoni a Pirandello

Don Abbondio

Luigi Pirandello dedica un passo del suo famoso saggio L’umorismo (1908) al personaggio di don Abbondio, il curato fifone de I Promessi Sposi. Una figura, questa, non soltanto comica, ma umoristica, poiché il suo atteggiamento evidenzia un aspetto caratteriale che possiamo facilmente ritrovare in tutti noi: la debolezza e la paura di fronte alle minacce e alle prepotenze dei malvagi.

L’umorismo di Manzoni in don Abbondio

[…] non è comico soltanto, ma schiettamente e profondamente umoristico.

Nell’evidenziare questo umorismo, Pirandello prende le difese del personaggio, portando all’attenzione il lato umano del suo essere “un coniglio” e motivando i suoi comportamenti e le sue scelte proprio alla maniera del Manzoni: facendoli osservare al lettore da un punto di vista meno ideale e più realistico. L’intenzione di Alessandro Manzoni, difatti, era quella di far riflettere i lettori. È giusto puntare il dito contro il curato? È lecito condannarlo?

Dove sta il sentimento del poeta? Nel disprezzo o nel compatimento per don Abbondio? Il Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della missione del sacerdote su la terra, e incarna questo ideale in Federigo Borromeo. Ma ecco la riflessione, frutto della disposizione umoristica, suggerire al poeta che questo ideale astratto soltanto per una rarissima eccezione può incarnarsi e che le debolezze umane sono pur tante. Se il Manzoni avesse ascoltato solamente la voce di quell’ideale astratto, avrebbe rappresentato don Abbondio in modo che tutti avrebbero dovuto provar per lui odio e disprezzo, ma egli ascolta entro di sé anche la voce delle debolezze umane.





Sappiamo tutti come finisce la storia de I Promessi Sposi: Don Rodrigo, il cattivo, viene ucciso dalla peste. Non viene sconfitto da un eroe, ma da una malattia. Se vogliamo “parlare manzoniano”, da quella “divina provvidenza” che aiuta gli umili e garantisce un lieto fine che, altrimenti, non sarebbe stato poi così scontato. Date queste premesse, cosa avrebbe potuto fare un povero prete contro la spietata gang del pericoloso Rodrigo?

Ora, io non nego, don Abbondio è un coniglio. Ma noi sappiamo che Don Rodrigo, se minacciava, non minacciava invano, sappiamo che pur di spuntare l’impegno egli era veramente capace di tutto; sappiamo che tempi eran quelli, e possiamo benissimo immaginare che a don Abbondio, se avesse sposato Renzo e Lucia, una schioppettata non gliel’avrebbe di certo levata nessuno, e che forse Lucia, sposa soltanto di nome, sarebbe stata rapita, uscendo dalla chiesa, e Renzo anch’egli ucciso. A che giovano l’intervento, il suggerimento di Fra Cristoforo? Non è rapita Lucia dal monastero di Monza? C’è la lega dei birboni, come dice Renzo. Per scioglier quella matassa ci vuol la mano di Dio; non per modo di dire, la mano di Dio propriamente. Che poteva fare un povero prete?





Don Abbondio rappresenta l’uomo reale, non l’eroe ideale. Di eroi, purtroppo, ce ne sono ben pochi nella realtà, e questo Manzoni lo sapeva bene. E lo sappiamo bene anche noi. Il sacerdote impavido che, sprezzante dell’evidente pericolo, adempie i doveri del proprio ministero maritando Renzo e Lucia nonostante le chiare minacce dei bravi, non può certo essere un uomo che teme perfino la sua stessa ombra. E non possiamo pretendere di trasformare un coniglio in un leone: ognuno ha la propria natura.

Pauroso, sissignori, don Abbondio; […] ma […] il pauroso è ridicolo, è comico, quando si crea rischi e pericoli immaginarii: ma quando un pauroso ha veramente ragione d’aver paura, quando vediamo preso, impigliato in un contrasto terribile, uno che per natura e per sistema vuole scansar tutti i contrasti, anche i più lievi, e che in quel contrasto terribile per suo dovere sacrosanto dovrebbe starci, questo pauroso non è più comico soltanto. Per quella situazione non basta neanche un eroe come Fra Cristoforo, che va ad affrontare il nemico nel suo stesso palazzotto! Don Abbondio non ha il coraggio del proprio dovere; ma questo dovere, dalla nequizia altrui, è reso difficilissimo, e però quel coraggio è tutt’altro che facile; per compierlo ci vorrebbe un eroe. Al posto d’un eroe troviamo don Abbondio. Noi non possiamo, se non astrattamente, sdegnarci di lui, cioè se in astratto consideriamo il ministero del sacerdote. Avremmo certamente ammirato un sacerdote eroe che, al posto di don Abbondio, non avesse tenuto conto della minaccia e del pericolo e avesse adempiuto il dovere del suo ministero. Ma non possiamo non compatire don Abbondio, che non è l’eroe che ci sarebbe voluto al suo posto, che non solo non ha il grandissimo coraggio che ci voleva; ma non ne ha né punto né poco; e il coraggio, uno non se lo può dare!





Don Abbondio fa sorridere. Manzoni lo compatisce con il riso, un riso tutt’altro che superficiale. È questo che rende il personaggio umoristico, più che comico. Perché, se la comicità fa semplicemente ridere, l’umorismo tramuta le risa in attente riflessioni e lascia spazio a emozioni differenti.

Un osservatore superficiale terrà conto del riso che nasce dalla comicità esteriore degli atti, dei gesti, delle frasi reticenti ecc. di don Abbondio, e lo chiamerà ridicolo senz’altro, o una figura semplicemente comica. Ma chi non si contenta di queste superficialità e sa veder più a fondo, sente che il riso qui scaturisce da ben altro, e non è soltanto quello della comicità. […] Sì, ha compatimento il Manzoni per questo pover’uomo di don Abbondio; […] solo a patto di riderne e di far rider di lui, egli può compatirlo e farlo compatire, commiserarlo e farlo commiserare. Ma, ridendo di lui e compatendolo nello stesso tempo, il poeta viene anche a ridere amaramente di questa povera natura umana inferma di tante debolezze; e quanto più le considerazioni pietose si stringono a proteggere il povero curato, tanto più attorno a lui s’allarga il discredito del valore umano. Il poeta, in somma, ci induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che è pur umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano su la coscienza. E che ne segue? Ne segue che se, per sua stessa virtù, questo particolare divien generale, se questo sentimento misto di riso o di pianto, quanto più si stringe e determina in don Abbondio, tanto più si allarga e quasi vapora in una tristezza infinita, ne segue, dicevamo, che a voler considerare da questo lato la rappresentazione del curato manzoniano, noi non sappiamo più riderne.

 

Annapaola Ursini

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