Dieci domande sull’Afghanistan per chi è nato dopo il 2000

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On patrol in North East Bamyian with Kiwi Team One, performing both mounted and dismounted patrols The NZ PRT Bamyan is tasked with maintaining security in Bamyan Province. It does this by conducting frequent presence patrols throughout the province. The PRT also supports the provincial and local government by providing advice and assistance to the Provincial Governor, the Afghan National Police and district sub-governors. Thirdly the NZ PRT identifies, prepares and provides project management for NZAID projects within the region. These are contracted to Afghan companies who hire local workers to assist with the completion of these projects. Thus each project provides new amenities, and also provides employment in the region.

Considerando che al liceo è già molto se si arriva a concludere frettolosamente la seconda guerra mondiale, ci sono zone del mondo di cui sappiamo poco o nulla. Quando succede qualcosa, mettiamo insieme i pezzi dai telegiornali e da quello che leggiamo, ma ci sono storie che sono lunghe decenni. Alla luce di quel che sta avvenendo in Afghanistan, noi di Ultima Voce abbiamo raccolto qui alcune tra le domande più frequenti sugli eventi di questi giorni: perché l’Afghanistan è così importante? C’entra qualcosa l’11 settembre? Perché gli Stati Uniti hanno deciso di ritirarsi? Come hanno fatto i talebani a riconquistare tutto in pochi giorni? Perché si parla di tradimento?




1. Perché l’Afghanistan è così importante?

L’Afghanistan è uno Stato senza sbocco al mare, con una superficie doppia rispetto all’Italia e abitato da circa 40 milioni di persone. La sua capitale è Kabul e confina con l‘Iran, con il Pakistan, con il Turkmenistan, l’Uzbekistan e il Tagikistan e con la Cina. Ha una posizione strategica che, negli anni, ha suscitato l’interesse di numerose potenze. L’URSS nel 1979 lo ha invaso per aumentare la sua area di influenza: gli afgani hanno resistito per dieci anni, anche grazie al supporto degli USA e l’Armata Rossa ha poi abbandonato l’obiettivo. È un Paese che pullula di armi: una palestra a cielo aperto per chiunque voglia imparare a combattere. Lo stesso Osama Bin Laden, fondatore di Al Qaeda, saudita, aveva combattuto in Afganistan proprio contro i sovietici.

2. Nasce tutto dall’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001?

No, la storia è molto più risalente nel tempo. Nel 1994 l’Afghanistan è teatro di una sanguinosa guerra civile. Nel Paese convivono diverse etnie. Tra queste la più tradizionalista è quella Pashtun, stanziata più a sud. Proprio lì, nella città di Kandahar, nasce in questo periodo la milizia dei Talebani, che si definiscono “studenti del Corano”. Sono guidati dal Mullah Omar, un leader religioso che si fa strada con regole ferree: no musica, no divertimento, no donne, se non per la riproduzione. Nelle zone rurali, la rigidità talebana si impone e dà una risposta al bisogno di stabilità del Paese, mentre a Kabul e nel nord fremono il progresso culturale, la voglia di libertà dell’ambiente post-hippy e universitario.

3. Che ruolo ha il petrolio?

Negli anni Novanta la guerra civile la fa da padrona. I talebani, però, hanno ben presente la priorità: bisogna fare affari con chi possiede i giacimenti di petrolio e gas naturale che circondano lo Stato e che hanno bisogno dell’Afghanistan per il trasporto in Europa, in India e altrove. I talebani, quindi, devono assicurare la stabilità. Lo fanno facendo pagare alla popolazione il prezzo di un regime repressivo e spietato, conquistando anche Kabul nel 1996. Le donne diventano de facto schiave, vengono vietate persino le gare di aquiloni, mentre l’economia viene sostenuta dal contrabbando di armi e dal traffico di stupefacenti, come oppio ed eroina. Intanto, le risorse naturali fanno gola a tutti: i talebani firmano accordi con chiunque arricchisca le loro casse.

4. Ma quindi qual è stato il ruolo di Bin Laden?

I talebani accolgono il ricco combattente Bin Laden, che nel maggio 1996, viene allontanato dal Sudan. Sceglie quindi di trasferirsi in Afghanistan, dove stringe un forte rapporto con Mullah Omar. Bin Laden ha come nemico numero 1 gli Stati Uniti, che hanno trasformato la sua Arabia Saudita in “una colonia americana”. Nel frattempo, giunge il 2000 e le elezioni americane eleggono George W. Bush come presidente. Petroliere, con ministri e collaboratori provenienti dal suo stesso settore e da quello delle armi, Bush non conclude affari con i talebani. Arriva l’attentato dell’11 settembre, con i suoi tremila morti. La Casa Bianca chiede la testa di Bin Laden, ma i talebani non lo consegnano. È la sera di domenica 7 ottobre 2001: gli Stati Uniti di Bush e la Gran Bretagna di Blair danno il via ai bombardamenti su Kabul e su Jalalabad.

5. Come è andata la guerra?

L’Occidente partecipa alla guerra e aiuta le milizie antitalebane del luogo. I talebani perdono quasi subito Kabul, mentre Bin Laden è costretto alla fuga. Intanto, si insedia un governo a cui si tenta di dare una stampella democratica: l’Onu invia risorse finanziarie e militari. L’Italia schiera i suoi migliori giuristi per scrivere la Costituzione. I talebani però non si arredono così facilmente: mettono da parte i contrasti interni per cacciare gli invasori occidentali. Anche se ridotti al lumicino, non sono mai sconfitti del tutto: consapevoli che comunque il governo afghano è ancora troppo fragile, attendono il momento propizio per farsi largo e tornare più forti di prima.

6. Perché Biden ha deciso di ritirare le truppe? 

Anche in questo caso, bisogna fare un passo indietro. Trump, appena eletto, con il suo “America first” ha sottolineato l’obiettivo dell’isolazionismo e del facciamoci gli affari nostri. Vuole ritirare le truppe degli americani prima delle nuove elezioni, ma non riesce a trovare un accordo con i talebani. Nella prima fase, Trump, consigliato da ex generali di stanza in Afghanistan, ha comunque un atteggiamento prudente, ma nella seconda parte del mandato, si può dire che non riceva i consigli più ponderati:  Mike Pompeo e i suoi sottoposti non impostano un negoziato con i talebani, ma provvedono a un ritiro senza condizioni. Danno quindi ai talebani tutto ciò che vogliono. Biden eredita il pacchetto Biden e lo declina a suo modo: fissa il ritiro definitivo per il 31 agosto, allungando comunque il progetto di Trump di quattro mesi. Biden e Trump, quindi, pur così diversi, condividano la responsabilità del ritiro. O, forse, la voglia di incassare il risultato elettorale del ritiro.

7. Perché era così importante la presenza degli americani sul territorio afghano?

Come hanno ricordato Cecilia Sala e Daniele Raineri de Il Foglio, bisogna considerare tutto in prospettiva storica: dal 1945 in Italia sono presenti 12 mila soldati statunitensi, sparsi nelle basi su tutto il territorio. In Germania ce ne sono 35 mila, mentre 53 mila sono quelli in Giappone e 26 mila risultano in Corea del Sud. In Afghanistan, erano 2500 i soldati americani ancora presenti, prima che la situazione precipitasse negli ultimi giorni. Meno dei vigili urbani di Milano, che sono invece 3000. Al di là del dato numerico, recentemente, però, la missione americana non era incentrata sui combattimenti: l’attività aveva come focus la raccolta di dati di intelligence, di logistica e, non da ultimo, di sostegno anche solo morale all’esercito afghano nel contrasto ai talebani. 

8. Come è stato possibile che i talebani in pochi giorni abbiano riconquistato tutto?

Perché proprio a causa del venir meno del supporto degli occidentali sul territorio, molte battaglie non si sono nemmeno svolte tra esercito regolare e talebani. Le città sono semplicemente capitolate, negoziando, al massimo, con le milizie. Era solo una questione di tempo, legata indissolubilmente al ritiro delle truppe americane? Non si sa. Il problema, probabilmente, sta proprio alla base della tipologia di intervento di compromesso: intervenire e poi andarsene, in un territorio ancora così fragile come quello afgano, non era un’opzione percorribile. Eppure, gli Occidentali ne hanno fatto uno slogan politico, con i presidenti degli Usa pronti a rincorrere il ritiro per appuntarsi alla giacchetta la spilletta del ritiro delle truppe.

“Voi avete gli orologi e noi abbiamo il tempo”, aveva detto il Mullah Omar, all’arrivo degli statunitensi sul suolo afghano: aveva previsto che, con questa soluzione di compromesso, prima o poi qualsiasi esercito straniero si sarebbe stufato di investire tempo, soldi ed energie nella missione in Afghanistan e, a un certo punto, se ne sarebbe andato. A quel punto, secondo il leader, i talebani avrebbero riconquistato tutto. E così, di fatto, è avvenuto.

Tutti pensavano che ci sarebbe voluto, almeno, più tempo. Si ipotizzava che l’Afghanistan si sarebbe diviso, tra uno Stato talebano e uno contro di questo, ma tutto è avvenuto in modo repentino.

9. E la politica internazionale?

Come si sottolinea più volte quando si parla di politica internazionale, il posto che qualcuno cede viene subito occupato da qualcun altro. Il fatto che gli Stati Uniti abbiano voluto rinunciare scientemente al loro ruolo in uno Stato cerniera come l’Afghanistan ha senso solo se interpretato alla luce della promessa elettorale dell'”Ending the endless war“. Russia, Iran e Cina, probabilmente, non staranno a guardare. La Cina, peraltro, condivide con l’Afghanistan un confine piuttosto critico, sul quale è stanziata la minoranza musulmana degli uiguri: i talebani si sono precipitati a rassicurare la Cina, che per il momento si limita a fare buon viso a cattivo gioco. Il Pakistan nel frattempo appoggia i talebani, nonostante qualche collaborazione passata e temporanea con gli Stati Uniti.

L’amministrazione Biden aveva già promesso che, comunque, pur non essendoci più uomini sul campo, sarebbe stato possibile rispondere a eventuali attacchi con i droni: per la geografia del luogo e per l’avanzamento tecnologico, la cosiddetta ipotesi “Over the horizon” è ancora abbastanza fantascientifica. I droni dovrebbero affrontare un viaggio verso l’Afghanistan di 10 ore per la sola andata, passando sopra uno Stato come l’Iran: non sicuramente un amico degli Stati Uniti.

Ora i talebani hanno un solo grosso problema: quello del riconoscimento internazionale.

10. Perché si parla di “tradimento”?

Perché la popolazione afghana, in questi anni, ha collaborato con i governi degli occidentali e con le organizzazioni non governative: chi ha lavorato come interprete o come volontario per dare al proprio Stato una nuova speranza oggi si ritrova abbandonato a se stesso. Si sente sfruttato dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi che hanno promesso loro un nuovo Stato in cambio del loro supporto e che oggi se ne va a bordo di un aereo lasciando gli afgani sulla pista di decollo. Molte associazioni attive soprattutto per quanto riguarda l’aiuto alle donne, stanno provvedendo alla distruzione dei documenti nei loro uffici di Kabul: da questi infatti sarebbe possibile risalire all’identità delle persone che hanno aiutato, magari ad aprire un’attività o a iscriversi all’università. Molti volontari temono ritorsioni e denunce da parte dei vicini di casa, come testimonia in queste ore il profilo Instagram di Pangea Onlus.

10 bis: e i profughi?

Anche prima del vero e proprio collasso, ogni giorno 10 mila afgani lasciavano il Paese per raggiungere l’Europa. L’insediarsi del regime talebano comporterà di certo un’accelerazione del fenomeno, anche se arriveremo ad accorgercene solo tra qualche tempo. Oltre a questo, bisogna tenere presente che gli accordi firmati con la Turchia per limitare la migrazione verso l’Europa valgono per la Siria e altri Stati, ma non per i profughi afgani. Sarà quindi necessario rinegoziare con Erdogan gli accordi. Il problema dei profughi, quindi, con queste crisi, si tradurrà nella politica interna di ogni singolo Stato europeo.

Scrivere questo articolo è stato molto più semplice grazie agli interventi di Mimosa Martini, su Twitter, di Cecilia Sala e di Daniele Raineri su Instagram. Potete recuperare i loro interventi sui loro profili. 

Elisa Ghidini

 

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