“… e vissero per sempre felici e contenti”.
Non sempre
E quando la fiaba finisce e la relazione giunge al divorzio, occorre guardare al futuro: cosa abbastanza semplice come singoli, un po’ meno come genitori; è proprio in presenza di figli che le probabilità di finire in una Babilonia di ricatti e vendette aumentano in maniera considerevole.
La storia dei separati con i figli racconta spesso lo stesso scenario: madri stanche e oberate di responsabilità che inseguono ex mariti viveur, novelli Peter Pan, assenti come padri dal punto di vista affettivo ed economico. Eppure la faccenda sarebbe ben diversa, a sentire le numerose associazioni che raccolgono i cocci dei padri separati: uomini sommersi dai conti da pagare, gettati sul lastrico e esclusi dalla vita dei figli senza possibilità di appello. Dove si trova la verità? Probabilmente sta nel mezzo, o meglio da valutarsi caso per caso; quel che è certo è che in un’epoca di cambiamento degli storici ruoli sessuali e famigliari occorre domandarsi quali e quante leggi non stiano al passo con i tempi; che dire quindi di tutte quelle norme che regolano i rapporti tra i sessi per eccellenza? La domanda è tanto provocatoria quanto necessaria: le leggi sulla famiglia e sul divorzio sono sessiste? E se lo sono: chi ci rimette di più?
Le leggi sono figlie del tempo presente ma spingono anche verso il futuro, che la società sia pronta o meno ad evolversi; ed è così che vanno lette tutte le modifiche che sono state apportate negli ultimi dieci anni in materia di divorzio: nel 2013 è stato eliminato definitivamente il tradizionale concetto di “patria potestà” in favore della più equa “responsabilità genitoriale” in modo da equilibrare la posizione degli ex coniugi di fronte ai figli [ad essere onesti il cambiamento è avvenuto anche in risposta ad una condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che aveva rilevato nella legge Italiana una disparità tra i coniugi, in sfavore della figura paterna]. Inoltre, già dal 2006 era entrato in vigore “l’affidamento condiviso” come via preferenziale per garantire ai genitori di avere il più possibile lo stesso tempo a disposizione con i figli, nel benessere degli stessi. Gli addetti ai lavori, giudici e avvocati, ammettono che la legge è stata sorda e cieca per diverso tempo: i padri vedevano i figli automaticamente affidati alla madre e in più si vedevano costretti a pagare un mantenimento che spesso non teneva conto delle loro condizioni economiche, per esempio in caso di disoccupazione o di nuova famiglia e quindi di ulteriori soggetti minori da tutelare .
Se da un lato non è corretto da parte degli uomini elevarsi a vittime generali delle norme divorzili, occorre però essere onesti: la storia della legge sul divorzio ha raccontato a lungo una discriminazione maggiore nei confronti dei padri e sono molti gli uomini colpiti duramente, dal punto di vista economico ed emotivo, proprio come confermato dalle associazioni in difesa dei padri separati.
Come è potuto accadere? La legge sul divorzio ha tardato ad adeguarsi, raccontando a lungo una società in cui la donna è stata relegata, o si è relegata, ad un ruolo economico secondario, rinunciando più o meno spontaneamente al lavoro e alla carriera in funzione di un ruolo di assoluta predominanza nella gestione della casa e dei figli. Una scelta alimentata e appoggiata anche da vecchi e deleteri luoghi comuni che vedono la donna come “angelo del focolare” e ribadiscono che “la mamma è sempre la mamma”; in caso di divorzio quindi era automatico che alla donna (e mamma) andassero i figli, la casa e un assegno mensile che le permettesse di mantenere se stessa e la prole, in quanto soggetto debole da tutelare. Oggi le cose non stanno più così: la c.d. “sentenza Grilli” ha stabilito che il tenore di vita non è più rilevante quando si parla di assegni per l’ex coniuge; inoltre il mantenimento va visto alla luce della capacità effettiva del coniuge debole, quale che sia il suo sesso, di immettersi nel mondo lavoro, spronando al conseguimento dell’autonomia. Una decisione che, per adesso, riguarda maggiormente le donne e, secondo alcune, spingerebbe le stesse a non abbandonare il proprio percorso lavorativo in funzione del matrimonio e le stimolerebbe a rimettersi in gioco qualora questo fallisse. Sono tuttavia molte quelle che fanno notare che in una situazione di crisi come quella contingente può essere difficile per una donna di età media tra i 40 e i 50 anni, appena divorziata, emotivamente afflitta, con figli a carico, trovare un lavoro. Le politiche del lavoro devono quindi correre veloce verso una nuova concezione della famiglia: la figura tradizionale del padre come attore secondario nell’educazione dei figli, poiché invece unico responsabile della gestione economica della famiglia (secondo il vecchio assunto: o lavori o stai con i bambini), non è più sostenibile e auspicabile in tempi moderni; occorre che i padri si impegnino in prima linea, partendo magari da quella richiesta di paternità (che fa il paio con la maternità) sdoganata nei luoghi di lavoro di tutta l’Europa moderna ma che nell’Italia conservatrice stenta a decollare: difficile ridimensionare il ruolo della mamma come predominante nella vita dei figli, anche a causa di quelle stesse donne che santificano il ruolo di madre, castrando i padri (e tirandosi la zappa sui piedi).
Purtroppo questa impostazione tradizionale della famiglia, in palese contrasto con gli studi moderni, pare ancora avvalorata dalla prassi italiana: ad oggi nel 94% dei casi (secondo l’ultima Indagine Istat sui separati con figli) la casa coniugale e l’affidamento dei figli è prerogativa della madre a cui spetta un relativo assegno di mantenimento; una sproporzione spaventosamente alta che ci spinge a chiederci perché questo succeda e se non sia sintomo di un pregiudizio rispetto alla figura del padre. O se siano i padri a sentirsi inadeguati.
In verità bisogna dire che la donna è ancora il soggetto debole della famiglia (e della società) nella stragrande maggioranza dei casi: i dati nazionali che raccontano gli stipendi femminili inferiori a quelli maschili (tra il 10 e il 17% in meno, a parità di mansioni) non possono che riflettersi anche nelle questioni di coppia, rendendo di fatto la donna, ex moglie e madre, ricattabile dal punto di vista economico e ancora bisognosa di tutela. A questa ingiustizia oggettiva occorre però aggiungere due precisazioni: talvolta la legge è accorsa a proteggere la donna come soggetto debole di default anche quando invece a conti (in tasca) fatti non lo era; e in secondo luogo – ancora più grave – spesso le mogli godono della c.d. “prevalenza materna”, ossia quell’insieme di automatismi mutuati dal sentore comune che vedono la donna in quanto donna maggiormente in grado di occuparsi dei figli. Sono diversi i casi in cui la Cassazione ha applicato il principio della “maternal preference“; anche in situazioni di conflitto grave in cui la madre, in palese contrasto con il benessere dimostrabile del minore, ha deciso di trasferirsi altrove, sradicando i figli non solo dai importanti punti di riferimento ma anche dalla figura del padre, esasperando situazioni già complesse. In questo senso è intervenuto di recente il Tribunale di Milano affermando che la madre non può più essere considerata prevalente in funzione del proprio sesso, raccogliendo così l’impostazione internazionale che conferma l’assoluta eguaglianza tra i sessi nei ruoli genitoriali. Insomma: essere donna e femmina non fornisce una maggiore capacità genitoriale, uomini e donne rispetto ai figli sono tendenzialmente uguali; la loro capacità va valutata caso per caso, soprattutto in presenza di conflittualità tra gli ex coniugi, mediante l’aiuto di esperti che valuteranno il genitore più adatto a perseguire il benessere del minore. Sono sensibilmente in aumento i figli affidati ai padri a cui va il mantenimento e la casa; talvolta anche dopo anni di affidamento alla madre.
Nel totale rispetto dell’equilibrio dei figli, le leggi cambiano e le situazioni si ribaltano ma forse ancora un po’ troppo lentamente. Le associazioni a tutela dei padri separati manifestano sofferenza verso quello che pare essere ancora un automatismo: i figli che restano a vivere in casa con la madre. Purtroppo anche si giungesse a una situazione di maggiore equilibrio, a prescindere dal sesso del genitore a cui vengono affidati nella quotidianità, non sembra esserci modo per risolvere questa spiacevole situazione: i bambini hanno bisogno di stabilità e quindi di un ambiente domestico fisso che comporta la presenza maggiore di uno dei due genitori; la sofferenza per il genitore uscente sarà quindi tanta e innegabile. Perché il tempo con i figli resti di qualità e fluido nonostante la sistemazione degli stessi, occorre che i genitori non si facciano la guerra. E’ statisticamente vero che moltissimi padri si macchiano di ricatto economico: “non posso vedere i miei figli quanto vorrei e quindi non pago” ed è parecchio difficile far fronte al problema, in termini di norme e condanne; ma è anche vero che le donne si macchiano spesso di un ricatto più sottile ed invisibile che è quello emotivo, forti del fatto che i figli vivono in casa con loro. Di recente infatti la Corte e il Legislatore stanno prestando molta attenzione alla c.d. “alienazione parentale”: ossia l’attitudine del genitore che vive con i figli di screditare l’altro genitore, non solo escludendolo ma anche dipingendolo in maniera negativa o lamentandosene eccessivamente; comportando così un allontanamento indotto che non solo va contro i diritti dell’altro coniuge ma anche dei figli stessi, in virtù del quale è previsto un risarcimento fino ad una somma di 30 mila euro.
Un divorzio sano vede i genitori impegnati in prima linea per i figli e non a farsi la guerra tra di loro, supportati spesso da avvocati che, ciecamente, tentano di portare acqua al loro mulino.
Insomma, quando si parla di divorzio e quindi di famiglia, è difficile trovare delle vittime e dei colpevoli definiti, con buona pace dell’immaginario collettivo che vede ora streghe e ora orchi: al netto di soggetti disinteressati e inadeguati che spariscono dalla vita dei figli, non è possibile affermare che la legge oggi sia sessista (sebbene in un certo senso lo sia stata in passato e in modo inaspettato). I fattori in gioco sono moltissimi, diretti e indiretti, dalle norme sulla famiglia alle politiche del lavoro; ma soprattutto sono molteplici i panorami (scomodi) coinvolti: perché un divorzio sia sano (nei limiti di una relazione intensa che viene meno) occorre che la famiglia sia sana e quindi che lo siano i ruoli dei soggetti coinvolti e questo passa obbligatoriamente dalla parità effettiva tra i sessi, non solo a livello economico e sociale ma anche all’interno della famiglia, in assoluta eguaglianza, con buona pace dei detrattori del “genitore 1” e “genitore 2”.
Saranno pronti i padri a svestirsi del ruolo secondario e impegnarsi in primo piano nell’educazione dei figli, abbandonando vecchi concetti di virilità e di paternità? E saranno pronte le madri a fare un passo indietro, uscendo dalla percezione della maternità come qualcosa di sacro e di superiore, in favore dei padri, senza per forza considerarli meno capaci o inaffidabili?
Alice Porta
Un tema di cui per fortuna non ho esperienza diretta (non per gli aspetti più spiacevoli, almeno), ma che mi sembra qui trattato in maniera efficace e con un certo equilibrio. Purtroppo la lentezza della legislazione italiana nell’adeguarsi ai mutamenti sociali e del costume, con il conseguente ruolo di traino delle sentenze, è una piaga ben radicata nel nostro Paese e riscontrabile in molti altri ambiti. Consiglio la visione di “Gli equilibristi”, un film di Ivano De Matteo del 2012 in cui l’ottimo Valerio Mastandrea interpreta un padre costretto a confrontarsi con la dura realtà della separazione, e che in una scena tra le più memorabili si sente dire da un tizio che sta attraversando difficoltà simili alle sue: “il divorzio è roba da ricchi: quelli come noi non se lo possono permettere!”
Buonasera,
la ringrazio per il commento e mi scuso per il ritardo nella risposta.
Quello che lei dice è assolutamente tutto vero e probabilmente la mia frase è ambigua o da adito a pensare che io abbia emesso un parere personale o generale, di tipo pedagogico o antropologico, sull’educazione dei bambini ma non è così, mi scuso se sono sempre confusa e/o confusionaria.
La frase in questione, probabilmente mal posta, rientra all’intero di un discorso generale in cui io mi sono limitata a raccontare la prassi legale e giuridica Italiana in merito alle leggi divorzili e dall’affidamento dei figli: la prassi è che ancora si tende a preferire l’appoggio quotidiano e costante di un genitore creando così una iniquità innegabile di fondo. Non per niente, così come scritto nell’articolo, ci stiamo adeguando alle norme (e alle sonore sgridate) dell’Unione Europea e da qualche anno l’affidamento congiunto sta prendendo più piede nella prassi (e speriamo anche su carta). La frase era da leggere semplicemente in questo senso; non ho ovviamente potuto dilungare il discorso oltre confine oppure a livello teorico, come da esempi da lei citati, per esigenze di spazio e soprattutto di tema: l’articolo riguarda solo leggi e la giurisprudenza in Italia.