Oggi, 21 maggio, celebriamo la Giornata mondiale della diversità culturale per il dialogo e lo sviluppo istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2002.
Riconosciuta a livello concettuale dalla ricerca antropologica della prima metà del Novecento, la “molteplicità delle culture” rappresenta indubbiamente un’enorme ricchezza per l’umanità intera. Fiumi d’inchiostro sono già stati versati per descrivere e analizzare fino a che punto lo sia. L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, ad esempio, riconosce alla cultura il ruolo di forza motrice dello sviluppo sostenibile a cui ambisce e vede proprio nella diversità culturale il “potenziale creativo” per la realizzazione dei propri obiettivi. Tuttavia, il “diverso” continua spesso a spaventarci, destabilizzarci, coglierci impreparati. Talvolta si prova un vero e proprio “shock culturale” durante un viaggio all’estero, altre volte si creano malintesi con persone di nazionalità diversa dalla nostra. Altre volte ancora, in modo ingiustificabile, la paura del diverso sfocia in atteggiamenti violenti, discriminazione, razzismo…
La diversità culturale è davvero una ricchezza, ma se non possediamo gli strumenti per interpretarla nel modo corretto rischia di trasformarsi in un ostacolo. Un ostacolo al dialogo, allo sviluppo, all’integrazione, all’inclusione e soprattutto alla presa di consapevolezza del fatto che, al di là delle differenze – tanto culturali, quanto individuali – facciamo tutti parte del genere umano.
Linguaggio, comunicazione e barriere linguistiche
Prerogativa dell’essere umano, la facoltà del linguaggio è un elemento comune a tutti i popoli che sottende a quasi ogni aspetto delle nostre vite. In quanto animale sociale, l’uomo ha bisogno di comunicare e per farlo si avvale del linguaggio. Che si tratti di comunicazione verbale, paraverbale o non verbale, tutte le forme di linguaggio naturale variano da popolo a popolo. Esse sono espressione della visione del mondo del popolo che le utilizza e, come in un circolo virtuoso, danno forma alla cultura di quel popolo. Chiunque abbia studiato in modo approfondito una lingua straniera sa, infatti, quanto l’apprendimento di quella lingua dia accesso a “un posto in prima fila” per lo spettacolo della cultura del popolo che la parla. Cultura che non si limita alla produzione letteraria o artistica di un popolo, ma riguarda effettivamente la sua concezione del mondo.
Cultura e lingua risultano quindi inscindibili l’una dall’altra, almeno quanto l’atto della comunicazione lo è dalla necessità di utilizzare una delle forme del linguaggio. Come possiamo allora conoscere, comprendere, disfarci dei nostri pregiudizi e trovare un terreno comune con la cultura di un altro popolo, se non abbiamo un conoscenza profonda della sua lingua? Come possiamo puntare al dialogo interculturale, e quindi all’integrazione, quando uno dei primi fattori di emarginazione sociale e isolamento è la barriera linguistica?
Certo, l’Inglese è ormai usato come lingua comune per eccellenza (più precisamente detta lingua franca) nei contesti più disparati. In fondo, però, qualsiasi lingua comune a due o più persone può svolgere lo stesso ruolo e garantire così il dialogo tra individui provenienti da paesi diversi. La questione diventa però ben più complessa quando le difficoltà comunicative si verificano all’interno di uno stesso paese, tra abitanti della stessa nazione. Questo è il caso, ad esempio, degli Stati Uniti.
Il caso Usa e la non integrazione linguistica
Melting pot per antonomasia, gli Stati Uniti sono patria di un numero consistente di minoranze etniche che sono state e sono tuttora spesso oggetto di discriminazioni e persecuzioni. Queste minoranze parlano varietà di Inglese differenti dall’Inglese Americano Standard ed estremamente diverse tra loro, tanto da risultare a volte reciprocamente incomprensibili. Ciò causa problemi non indifferenti tanto in situazioni quotidiane, quanto in contesti più gravi, come un’udienza in tribunale o una visita medica. Naturalmente esistono ragioni storiche profonde per cui molte persone appartenenti alle etnie minoritarie rifiutano l’idea di integrazione con un popolo che ritengono dominatore. Tuttavia, anche per coloro che invece auspicano l’integrazione, la via da percorrere non è più semplice.
In risposta al problema dell’integrazione linguistica, la linguista americana Elizabeth Peterson (attualmente Professore Associato presso l’Università di Helsinki) propone una maggior tutela delle diverse varietà di Inglese. Secondo questo principio, dunque, ogni bambino dovrebbe avere la possibilità di apprendere la propria varietà linguistica a livello scolastico e vedersi garantita la presenza di un inteprete ogni volta che sia necessario. Tuttavia, se anche questo scenario fosse praticabile e consentisse davvero di evitare gravi incomprensioni, ritengo che non potrebbe che esacerbare la ghettizzazione delle diverse etnie rendendo quindi l’integrazione sempre più utopica.
“Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani”
Per quanto condivisibili siano gli ideali di conservazione e tutela della propria lingua madre e, in riferimento a paesi come l’Italia, anche dei dialetti, trovo che un’esasperazione in questa direzione potrebbe portare solo a divisioni interne. Penso dunque che proprio il caso italiano potrebbe fare scuola nel mondo come modello riuscito di superamento delle barriere linguistiche interne a uno stato.
Nata dall’unione di nove staterelli, ognuno con la propria cultura e varietà linguistica, l’Italia è diventata un’unica nazione nel 1861. Eppure, la celebre frase di Massimo D’Azeglio rende evidente quanto i confini politici spesso non abbiano nulla a che vedere con quelli culturali. Come risaputo, però, nel caso dell’Italia, l’elemento determinante che consentì la nascita del popolo italiano fu proprio l’adozione dell’Italiano come lingua comune all’intera nazione. La lingua che gli alunni avrebbero imparato a scuola, pur con la possibilità di continuare a parlare e custodire il proprio dialetto tra le mura domestiche.
La diversità culturale come valore aggiunto
La scuola che insegna un’unica varietà linguistica a tutti gli studenti della nazione, fornisce a chiunque si trasferisca in quel territorio gli strumenti necessari per diventare parte integrante della società di quello stato. Significa aprire le porte della cultura nazionale a tutte le persone che, per le ragioni più svariate, vi risiedono. Significa permettere loro di conoscere, se lo desiderano, il luogo in cui vivono e le persone che già vi abitavano. Questo tipo di scuola può consegnare nelle mani degli studenti le chiavi del loro futuro all’interno del paese in cui vivono. E questo penso sia il primo passo per una reale integrazione.
Nessuno deve rinunciare alla propria cultura, che, anzi, in un contesto di comprensione reciproca, può davvero essere condivisa e diventare arricchimento per tutti. Ma penso davvero che qualsiasi tentativo di dialogo interculturale debba necessariamente passare dall’abbattimento delle barriere linguistiche. Solo allora la diversità culturale potrà essere un’occasione di scambio reciproco e non un limite. Solo allora avremo gettato delle solide basi per uno sviluppo davvero sostenibile.
Cristina Resmini