Il 15 marzo ricorre la giornata del fiocchetto lilla, data prescelta in Italia per riflettere sul fenomeno dei disturbi alimentari. Frutto di una vera e propria campagna di sensibilizzazione sugli autori di una strage silenziosa. Il tentativo è di abbattere i muri del pregiudizio su patologie effettive, troppo spesso riconosciute come meri capricci. La speranza è la prevenzione di una malattia che non è mai una scelta, mitologica costruzione dell’immaginario comune, anche se affligge la mente.
La pandemia e i disturbi alimentari
La pandemia da Covid19 ha premuto il piede sull’acceleratore in una realtà già drammatica quale quella della salute mentale nell’era moderna. Le percentuali degli affetti dai disturbi alimentari sono triplicate, con un incremento anche maschile, e un abbassamento dell’età media. Bambine e bambini intrappolati in un corpo e nella sua idea, prigionieri di un concetto di irraggiungibile perfezione che vede nel cibo antidoto e veleno.
Nel biennio trascorso si sono moltiplicati i riflessi attraverso cui il sé diventa soggetto di vita e oggetto di giudizio. Le webcam accese delle conferenze digitali costringono l’individuo a guardarsi incessantemente attraverso una casella sullo schermo, dedicatagli interamente. Si vede muoversi, interagire, vivere. Si investiga scrupolosamente con inevitabili paragoni e confronti con gli altri condomini dello stesso pannello informatico.
Viene nutrita così la malattia dell’anima presenza ancestrale, espressione di vuoti profondi che trova in ciascuno una personalissima radice.
La ricerca dell’equilibrio
Da tempi immemori queste malattie assumono il ruolo di porta voci di un disagio non solo individuale ma anche sociale. Dalla medievale rinuncia al cibo per religiosa santificazione alla privazione per irraggiungibile perfezione. L’individuo diventa specchio con tutti i suoi buchi del mondo che è abituato a conoscere.
Non è il corpo ma la sua idea a nutrire il mostro senza sorriso, la lotta per un equilibrio con l’esterno si trasforma in uno scontro interiore all’ultimo colpo, una battaglia destinata all’autodistruzione già dal suo prologo.
Nucleo primo dell’annunciata disfatta è il controllo che assume contorni tetri e frastagliati, Minotauro irraggiungibile nel suo labirinto d’ingegno. Il cibo diventa mezzo di rigida disciplina, unica realtà in cui la volontà ascetica risulta necessaria e sufficiente per l’armonia. Un equilibrio apparente ma appagante per un illusorio dominio delle cose usato come scudo agli ostacoli dell’esistenza.
Nell’incarnazione più vicina mai esistita alla dottrina stoica si manifesta la volontà di conformarsi ad un logos universale di cui si è allo stesso tempo ideatori e seguaci.
Il contributo di Kant
Volere diventa non strumento della ragione ma catena al volo dell’esistenza di chi sognava di essere farfalla. Il dovere kantiano è cosi fondamenta della gabbia dorata di cui si è simbolici Dedali, costruttori ma anche prigionieri.
L’auto imposizione è qui la musica in sottofondo di una malinconia perenne. Rappresentazione eccellente della teoria kantiana in un’universalità distorta. Un imperativo categorico nel criticismo denota un’assoluta e incondizionata richiesta che dichiara la sua autorità in qualsiasi circostanza. Un tu devi inflessibile, primo comandamento di un cuore che perde lentamente i suoi battiti.
E così un devi alla volta il singolo si accartoccia su se stesso nell’abbraccio gelido di un nemico invisibile ma ingombrante, sul precipizio dei suoi vuoti fino a saltarci dentro in un ultimo vano tentativo di disciplinarsi.
A furia di percorrere strade asfaltate ci si dimentica quanto sia bello ballare nelle campagne circostanti, sorridere al sole e godersi la furia di un imprevisto temporale estivo. Gli imperativi categorici che per Kant dovrebbero regalare la libertà introducono invece una triste schiavitù.
I buchi dell’anima possono però diventare anfore per bellissimi fiori. Come la ginestra dell’incompreso Leopardi pronti a sfidare le avversità con dignitoso coraggio. Cicatrici incancellabili ma non per questo inguaribili, ricordo di una sofferenza che non deve, è qui il caso di dirlo, essere per sempre.
Sofia Margiotta