I disturbi alimentari sono ormai noti: ragazzi e ragazze sempre più sensibili, inermi di fronte al cibo e alla propria voglia di vivere. Questo è il pensiero comune nella maggior parte degli spettatori dei ragazzi “malati”. Limitarsi a osservare con disagio quel corpo scheletrico, obeso e anormale, che si tende a giudicare in silenzio. Eppure quel corpo ha una mente piena di pensieri e preoccupazioni, che viene sempre sovrastato dall’estetica. Un mondo di parole che invece dovrebbero essere urlate a pieni polmoni.
Disturbi alimentari: il peso del giudizio
“Sei magra. Ma quanto mangi. Vorrei avere il tuo fisico così asciutto. Prendine ancora, tanto te lo puoi permettere” .
Ci fermiamo sempre a osservare e criticare le persone che ci troviamo davanti, ma abbiamo mai pensato a come loro potrebbero sentirsi ascoltando le nostre parole, di come i giudizi non richiesti possano rivelarsi più deflagranti di un colpo di pistola?
Questi commenti risultano bombe che esplodono in un campo minato per chi soffre un disturbo alimentare.
Avere un disturbo alimentare non significa solo mangiare troppo, o troppo poco. Non vuol dire decidere di essere “anoressica, uno scheletro” come la maggior parte delle persone purtroppo pensa. Non è un comportamento adottato per ricevere attenzione. “Povera, è così magra e debole, una bimba di porcellana che deve essere curata”.
Non dimostra una mancanza di forza di volontà per superare il problema. Significa possedere una sensibilità talmente grande da mettere alla luce un malessere profondo, spesso radicato in costruzioni e sistemi errati di crescita e genitorialità. Significa avere la forza di affrontare un trauma, dargli spazio, costruire un personaggio. Significa urlare a pieni polmoni un disagio spesso familiare, di cui nessuno ha la forza di prendersi carico .
Le persone con disturbi alimentari non sono “le deboli, le malate”. Sono le uniche che hanno avuto il coraggio di alzare voce per dire “c’è un mostro sotto al letto, in questa casa. E lo sapete pure voi”.
Per riuscire a sostenere un disturbo alimentare bisogna essere forti, perché si decide deliberatamente soffrire, aprire gli occhi e riconoscere che c’e qualcosa di sbagliato. Vuol dire accettare l’esistenza di un dolore, invece di nasconderlo sotto il letto.
Un disturbo fantasma
Parliamo di un argomento sempre più noto: ormai le persone affette dal disturbo risultano 3 milioni in Italia, 55 milioni nel mondo. Persone che ci passano accanto ogni singolo giorno. Ragazzi che lavorano, madri con dei figli, bambine che giocano con le bambole.
Il personal trainer che vi segue in palestra, potrebbe soffrire di ortoressia.
La vostra superiore così pretenziosa al lavoro, potrebbe non aspettare altro che tornare a casa e vomitare tutto il cibo ingerito nella giornata, per sentirsi svuotata dalle preoccupazioni che si porta dentro. Vostra figlio potrebbe avere un centimetro nascosto nel cassetto del comodino, per controllare le misure della coscia in segreto dopo ogni singolo pasto.
Il controllo ossessivo del disturbo alimentare
Tendiamo a dare importanza solo alle notizie e ai numeri del problema. Quindi a voi lettori, chiedo: vi siete mai concentrati su cosa possano pensare queste persone che vediamo solo come “malate”?
“Basta così, grazie” perché quel singolo rigatone in più potrebbe significare il cedimento della persona stessa. Un rigido schema che è stato infranto, che comporta vergogna in se stessi per non essere riuscito a rispettarlo. Un solo rigatone di troppo può significare l‘espulsione del cibo ingerito due minuti dopo.
Due fili di pasta in più non fanno nulla agli occhi degli altri. Per chi soffre del disturbo, vuol dire aver deliberatamente accettato di essere un perdente, non valere nulla. Significa non poter mangiare il giorno dopo, doversi allenare fino allo stremo, e provare dentro un senso di vergogna e di solitudine che pesa nel petto quanto un macigno.
Immaginate di vivere nel controllo più totale, pur di riuscire a condurre una vita che agli occhi degli altri sembri libera, normale. Questo significa avere un disturbo alimentare: non concedersi nemmeno il più piccolo dubbio, perché il dubbio manifesta l’ignoto. Il corpo deve essere esattamente nel modo in cui è stato stabilito. Non un centimetro in più o in meno, non un giorno di gonfiore improvviso. Una statua che deve rimanere esattamente identica a come è stata modellata nel tempo e con molto sacrificio. Sempre uguale e costante indipendentemente dall’età, dal cibo. Indipendente da tutto.
L’ansia come origine del disturbo
L’ansia è un tratto generalizzato del disturbo: il controllo estremo sulla propria vita e l’ossessione che tutto debba andare in un determinato modo risulta dilaniante. Immaginate di vivere con il terrore che qualcosa non vada ogni giorno secondo il programma stabilito. Terrore puro, origine di squilibrio e attacchi di panico.
La parola “panico” viene usata molto spesso a mal proposito. Perché gli attacchi di panico sono ogni volta un lutto di se stessi. Energia rigettata fuori con un dolore fisico, l’impossibilità di smettere di urlare, di piangere o di avere convulsioni. Sentirsi inerme di fronte all’incubo che prende il sopravvento. Il terrore decide sul corpo e sulla mente, e tu, vittima di questo, non puoi far altro che accoglierlo e aspettare che ti lasci andare.
I pensieri sono i peggiori nemici delle persone affette dal disturbo alimentare. Individui che pensano troppo, pur di trovare un’ identità e un senso della propria vita. Non sono malate, ma persone autentiche e in grado di sopportare una mole di pensieri che la gente comune non riesce a sostenere. Sono piccoli supereroi che accettano il dolore come parte integrante della vita, per viverlo fino in fondo e non rischiare di condurre un’esistenza dettata dalla superficialità.
Perché solo chi veramente conosce la tristezza, può essere davvero intelligente.
Ginevra Montenovo