Distruzione degli habitat e pandemie: due fenomeni a confronto nell’epoca dell’Antropocene

distruzione degli habitat

Secondo il report del WWF, la distruzione degli habitat favorisce la comparsa di nuove malattie infettive, che hanno poi un costo drammatico in termini di vite umane e di effetti socio-economici.

Malattie emergenti

Era il 1981, quando l’AIDS fece la sua comparsa in letteratura, sebbene alcuni casi fossero già stati registrati negli anni Settanta. Vent’anni dopo, tra il 2002 e il 2003, a Canton (Cina) scoppiò il primo focolaio di SARS, una polmonite causata dal virus SARS-CoV-1. Ancora nel 2009, l’OMS dichiarò pandemica l’influenza suina di tipo A(H1N1), che, partita dal Messico, si diffuse soprattutto negli Stati Uniti. Nel 2014, in Guinea scoppiò un grave focolaio di Ebola, causato da un virus comparso per la prima volta in Congo nel 1976. E infine arriviamo a dicembre 2019, quando a Wuhan (Cina) si sono registrati i primi casi d’infezione di SARS-Cov-2, il virus responsabile dell’attuale pandemia. In generale, sono tutti classificati come “eventi catastrofici casuali” o “malattie emergenti”, ma, secondo la scienza, la loro comparsa è legata soprattutto alla distruzione degli habitat.




L’Antropocene

Si traduce letteralmente “l’era dell’uomo” e rappresenta una fase nella quale è l’uomo a rimodellare la Terra, influenzandone decisivamente l’ecosistema globale. Attualmente la Commissione Internazionale di Stratigrafia (CSI) classifica l’epoca in cui viviamo come Olocene, in quanto per i geologi il passaggio è determinato solo da cambiamenti tangibili nelle rocce terrestri. Infatti, l’Antropocene è per ora solo una proposta che, però, la comunità scientifica sta discutendo, con il fine di proporla poi ufficialmente alla CSI. Secondo l’Anthropocene Working Group (AWG), l’inizio dovrebbe coincidere con la metà del Novecento, ovvero da quando ci sono prove evidenti della presenza di radionuclidi nelle rocce, la cui origine è legata alla detonazione della prima bomba atomica.

Il termine Antropocene fu coniato per la prima volta dal biologo Eugene Stroemer negli anni Ottanta, ma si affermò solo all’inizio del nuovo millennio con il premio Nobel Paul Crutzen. Tra i massimi esperti di chimica dell’atmosfera, nel 2000 annunciò al Convegno (IGBP) la fine dell’Olocene e l’inizio dell’Antropocene.

L’uomo e la distruzione degli habitat

Dai numerosi dati raccolti negli anni in diversi ambiti scientifici, è indubbio che l’uomo abbia un impatto importante sulla Terra. Ad oggi, il 50-70% della superficie terrestre è stata modificata solo per costruire strutture ed estrarre materiali. L’80% degli animali scomparsi si è estinta ad opera dell’uomo, che ormai domina il 90% degli ecosistemi. Fatto ancora più grave, l’attività antropica ha determinato il superamento dei limiti ecologici del pianeta e, infatti, stiamo vivendo una crisi sistemica senza precedenti. In ultimo, l’alterazione dei cicli biogeochimici, in primis quello del Carbonio, è tra le principali cause dei cambiamenti climatici.

Il mondo dei microrganismi

Comparsi sulla Terra circa 3,5 miliardi di anni fa, sono la forma di vita più antica e mostrano un’incredibile diversità per forma, metabolismo e habitat. Rientrano nella categoria i batteri, gli archea, i protozoi, alcuni funghi e i virus, sebbene quest’ultimi non siano considerati dei veri e propri organismi viventi, almeno non da tutta la comunità scientifica. Infatti, non sono in grado di riprodursi autonomamente, motivo per cui vengono spesso descritti dai biologi come “organismi ai margini della vita”. Tuttavia, tutti i microrganismi sono invece accomunati dallo svolgere un ruolo essenziale nei cicli biogeochimici della biosfera. In buona parte sono innocui per la salute e, anzi, necessari (es. microbioma umano), ma alcune specie, dette patogene, possono avere effetti negativi, talvolta mortali.

Purtroppo, la distruzione degli habitat e la conseguente modifica degli ecosistemi facilita il passaggio di questi microrganismi dagli animali all’uomo, che, essendosi ormai insediato ovunque, ha maggiori probabilità di entrare in contatto con gli animali selvatici e quindi con i loro patogeni. Inoltre, il commercio incontrollato e spesso illegale di molte specie selvatiche aumenta le probabilità di contatto diretto, facilitando il “salto”.




I virus

Sulle loro origini il dibattito è ancora aperto e ci sono diverse ipotesi, così come non tutti i biologici sono concordi nel definirli propriamente organismi viventi. Per sopravvivere infettano altri organismi, quali piante, funghi, batteri e animali, delle cui cellule sfruttano il sistema riproduttivo. Si distinguono in due grandi categorie: virus a DNA e RNA.

I virus a RNA sono quelli di maggiore interesse per l’uomo, poiché colpiscono principalmente i mammiferi, ma anche alcuni uccelli, e sono considerati i più importanti nella trasmissione di zoonosi. Infatti, hanno un tasso di mutazione elevato, si adattano facilmente ai nuovi ospiti e sviluppano la resistenza ai farmaci in tempi brevi. Alcuni esempi di virus a RNA particolarmente pericolosi sono l’HIV, SARS, Hendra e l’attuale SARS-Cov-2. Da un punto di vista ecologico, i virus tendono a massimizzare le loro capacità di sopravvivenza, per questo cercano un equilibrio con l’ospite, invece di ucciderlo. Tuttavia, quando avviene il passaggio da una specie all’altra, si crea uno squilibrio e la letalità aumenta, almeno in un primo periodo.

Zoonosi, dagli animali all’uomo

Tutte le malattie dell’uomo che derivano dagli animali sono dette zoonosi e possono essere generate da una grande variabilità di microrganismi. Ad oggi, l’OMS ne classifica più di 200, tra cui le più note sono:

Per alcune il contagio è diretto, mentre per altre ci sono altri organismi vettori (es. gli insetti).  In genere, le più pericolose sono quelle che si trasmettono direttamente da uomo a uomo, poiché, vista la quantità di esseri umani presenti sulla Terra, il rischio di diffusione incontrollata aumenta notevolmente. Infatti, le zoonosi causano ogni anno circa un miliardo di morti e hanno spesso un impatto importante anche a livello socio-economico, come dimostra l’attuale pandemia. Infine, a questi numeri si aggiungono quelli delle tossinfezioni, un’altra forma di tossinfezione, ma trasmessa attraverso gli alimenti (es. Salmonella).

Il fattore rapidità

In un recente passato, la medicina aveva fatto passi in avanti importanti contro le epidemie. Infatti, la scoperta dei vaccini e degli antibiotici ha contribuito notevolmente a migliorare la qualità di vita delle persone. Tuttavia, l’abuso di farmaci, la resistenza antibiotica e l’aumento delle zoonosi hanno messo nuovamente l’uomo in pericolo, rendendolo più vulnerabile alle infezioni. Purtroppo, le nuove malattie emergenti compaiono a una velocità preoccupante, sicché controllarle sta diventando sempre più difficile. Inoltre, la globalizzazione facilita la diffusione dei contagi, determinando scenari complessi, come accaduto con il Covid-19.

Paura di un nuovo “Big One”

La ricerca da anni investe tempo e denaro nelle zoonosi, poiché consapevole del rischio e delle potenzialità catastrofiche delle nuove epidemie. Infatti, è ormai noto che il nuovo nemico per l’uomo potrebbe non essere una terza guerra mondiale o un’esplosione nucleare ma, piuttosto, una pandemia di proporzioni catastrofiche: una “Big One”.

Insomma, quanto accaduto nel Medioevo con la peste bubbonica, causata dal batterio Yersina pestis, è purtroppo uno scenario possibile. Tuttavia, è altrettanto pericolosa la fobia della malattia, che spesso porta le persone a evitare di entrare in ospedale per paura di contagiarsi, rischiando di morire per altre complicazioni. Ad esempio, in Africa, durante l’epidemia di Ebola, sono morte molte più persone di malaria, poiché avevano paura di andare nelle strutture sanitarie.

La distruzione degli habitat

Già da tempo è stata elaborata l’ipotesi che l’alterazione degli ecosistemi possa facilitare e incrementare la diffusione delle zoonosi. A tal proposito, si ricorda il Millennium Ecosystem Assessment (2005) delle Nazioni Unite, nel quale già furono descritti alcuni casi di correlazione tra distruzione degli habitat e diffusione di malattie. L’attività antropica influenza i delicati equilibri della biosfera tramite molteplici meccanismi:

Alcuni ambienti sono la culla perfetta per la trasmissione delle zoonosi, ad esempio le periferie degradate e i sistemi di irrigazione, canalizzazione e le dighe, dove si riproducono i vettori (es. le zanzare). Ad esempio, in alcuni paesi tropicali come il Malawi si è diffusa maggiormente la schistosomiasi a causa della pesca insostenibile. Infatti, quest’ultima ha portato alla scomparsa dei pesci predatori delle lumache che sono il serbatoio intermedio del parassita trematode Schistosoma.



La distruzione delle foreste

Ad oggi, circa la metà delle foreste temperate e tropicali sono state convertite in terreni coltivati o pascoli, mentre l’uso eccessivo del suolo rappresenta una delle alterazioni più importanti dei sistemi naturali della Terra. L’80% della biodiversità mondiale vive nelle foreste, le quali all’inizio della rivoluzione agricola contavano circa 6.000 miliardi di alberi, mentre oggi sono meno di 3.000 miliardi. Negli ambienti forestali vivono centinaia di microrganismi, molti ancora a noi sconosciuti e innocui. Tuttavia, la distruzione degli habitat mette i virus, soprattutto quelli a RNA, nelle condizioni di doversi adattare a nuovi potenziali ospiti, quale è l’uomo.

Ad esempio, l’HIV (Human Immunodeficiency Virus) si è adattato all’uomo a partire dalle scimmie presenti nelle foreste dell’Africa Centrale. Dopo il passaggio, il patogeno si è modificato permettendo la trasmissione diretta uomo-uomo, motivo per cui oggi l’AIDS è conosciuto in tutto il mondo e conta più di 35 milioni di morti.

Da uno studio condotto nell’Amazzonia peruviana è emerso che, nei siti deforestati, la densità della zanzara Anopheles darlingi, responsabile della malaria, è maggiore in confronto alle zone inalterate.

Il bushmeat

La cattura di fauna selvatica, sia a scopo ludico sia alimentare, è tra le principali cause dell’incremento di zoonosi. Purtroppo, molte malattie attuali derivano dal contatto diretto con alcune specie animali, quali pipistrelli, civette e scimmie, oppure dall’assunzione di carne di rettili, pangolini, antilopi, ippopotami e scimpanzé.

Il consumo di bushmeat, ovvero di carne di animali selvatici, è un fenomeno in costante aumento che, tra l’altro, alimenta un giro di affari non indifferente. Secondo il TRAFFIC, in un solo distretto del Kenya l’80% delle famiglie consuma in media 14,1 kg di carne selvatica al mese, mentre in Botswana il 46% la cifra è di 18,2 kg.

Tuttavia, questo fenomeno interessa anche tanti altri paesi nel mondo, ad esempio il Perù, dove si cacciano circa 28.000 scimmie l’anno, e l’Indonesia, da cui vengono esportate circa 25 tonnellate di tartarughe.

Il commercio illegale

Conosciuto con il nome di “wildlife trafficking”, interessa sia la fauna selvatica sia parti di animali, come le corna di rinoceronte e le scaglie di pangolino. Lo scambio di questi esemplari aumenta le possibilità di trasferimento dei patogeni e, quindi, l’insorgere di epidemie. Inoltre, molto spesso le specie sono allevate senza alcun controllo sanitario, diventando dei covi di malattie infettive anche molto pericolose, soprattutto perché poi gli animali vengono venduti vivi negli affollati mercati rionali.

Un buon modus operandi 

In passato, l’uomo ha cercato di arginare il problema con sistemi drastici ad altissimo impatto ambientale, primo fra tutti l‘uso massivo degli insetticidi, per sterminare le specie ospiti e/o vettori. Tuttavia, questo tipo di interventi nel tempo non è risultato efficace, poiché:

Per queste ragioni, è preferibile l’approccio “One Health”, secondo il quale la salute degli esseri umana è strettamente connessa alla tutela dell’ambiente. Si tratta di una visione olistici e multidisciplinare del problema e, infatti, coinvolge necessariamente esperti di più campi, i quali collaborano nel raggiungimento di un obiettivo comune: limitare la distruzione degli habitat. Inoltre, diventa fondamentale garantire il funzionamento degli ecosistemi e la loro attenta gestione per poi saper gestire le malattie, ostacolandone la diffusione.

L’effetto diluizione

In un ecosistema ricco di biodiversità aumentano le probabilità che un patogeno infetti una specie non adatta a fare l’ospite, la quale funzionerà invece da “dead-end host”, ovvero da ospite “a vicolo cieco”.  L’efficacia di questo fenomeno, detto diluizione, è confermata da più studi, molti dei quali fatti in Amazzonia, per studiare la diffusione della malaria.

È tempo di ricostruire ciò che è andato perduto”

Per decenni, l’uomo ha aggredito la natura focalizzando l’attenzione esclusivamente sul proprio imminente interesse. Oggi, la scienza ci spiega quanti e quali danni sono stati fatti nel tempo, spesso in modo irrimediabile. Tuttavia, dall’altra parte le moderne tecnologie e la consapevolezza possono fare la differenza per rimediare e, soprattutto, impedire di ripetere gli stessi errori.

Dipende tutto da noi e dalle nostre scelte.

Troppo a lungo abbiamo gestito la Natura come qualcosa che potevamo controllare e sfruttare secondo le nostre necessità, almeno in buona parte. L’abbiamo conosciuta ribelle nei terremoti, nelle frane e nelle inondazioni, che spesso sono stati determinati dal nostro operato, ma mai pensavamo potesse rispondere con nemici tanto invisibili quanto pericolosi. Eppure è successo. Più volte.

Il Covid-19 ha fermato il mondo, catapultandolo in una realtà surreale e ovattata da un silenzio assordante di piazze vuote, di saracinesche abbassate e di centinaia di morti. Ci siamo scoperti incredibilmente impotenti di fronte a qualcosa che non potevamo gestire e che oggi cerchiamo di sconfiggere con il distanziamento, i vaccini e le cure.

Tuttavia, ci sarebbe un antidoto ancora più sicuro ed è ricostruire quel meraviglioso muro naturale che abbiamo sconsideratamente distrutto in secoli di assoluto menefreghismo.

Un muro che ci potrebbe far dimenticare il sapore amaro di tutte quelle ore passate sotto il segno del distanziamento sociale.

Carolina Salomoni

Exit mobile version