Dissenso in Italia, dal ’68 a oggi: violenza e democrazia

Dissenso in Italia

La recente repressione contro i manifestanti in piazza a Pisa è solo l’ultimo episodio di una lunga serie, che attraversa le piazze d’Italia dal 1968 a oggi.
Una storia che racconta di lotte e diritti, ma anche di sangue e violenza

L’Italia ha una lunga storia di proteste e manifestazioni di dissenso, una storia che attraversa le scuole e le piazze da Nord a Sud. Dai movimenti studenteschi del 1968 al tristemente noto G8 di Genova, fino alle proteste ambientaliste che hanno incendiato il sud nel 2008 e che, ancora oggi, sono al centro di discussioni.
E poi le proteste dei No-TAV, quelle contro la guerra in Iraq del 2003, contro l’austerity del governo Monti, e in nome dei morti sul lavoro.
Infine, le manifestazioni contro le guerre attualmente in corso in Ucraina e nel Medio Oriente.

Spesso si dice che gli italiani si lamentano ma non si alzano mai dal divano. Non è così. Il problema è che, nella gran parte delle manifestazioni, si è arrivati alla violenza. E, troppo spesso, a misure di repressione sproporzionate e inadeguate. Questo sotto ogni tipo di governo, colore e ideologia.

Ripercorrere le tappe principali della storia della manifestazione del dissenso in Italia è importante perché la Storia insegna, ma insegna soprattutto che non insegna niente. E che niente cambia, se non si cambia niente.

Dissenso in Italia: i “Sessantottini” e la loro eredità

Gran parte della storia della manifestazione del dissenso in Italia è stata scritta nelle aule di scuole e università.
Negli anni ’60, l’età dell’obbligo scolastico era salita a 14 anni, ossia al completamento delle scuole medie. In più, il boom economico di quegli anni aveva permesso a molti ragazzi di proseguire gli studi fino all’università.
I giovani sessantottini erano animati da forti ideali, e sognavano una società diversa da quella della generazione precedente. In particolare, rigettavano il sistema di produzione capitalista, i modelli sociali correnti e la cultura imposta dalle scuole e dai media, e condannavano l’immobilismo di quello che, per i loro genitori, era il migliore dei sistemi possibili.
I primi movimenti di protesta sorsero nel 1967, con le occupazioni pacifiche degli atenei di Pisa e Trento.
Ma la violenza sorse nel 1968, con la Riforma Gui. Tale provvedimento favoriva l’avanzamento della carriera universitaria solo di coloro che potevano permetterselo, mentre i meno abbienti (più del 50% degli studenti) erano costretti a lavorare e a lasciare gli studi prima della laurea.
Perciò, nel febbraio 1968, gli studenti occuparono la facoltà di Architettura dell’Università di Roma a Valle Giulia, dando inizio alla cosiddetta “Battaglia di Valle Giulia“.




Gli occupanti furono sgomberati dalla polizia, ma i sessantottini si ripresentarono in Piazza di Spagna il 1 marzo, in più di 4000. Studenti e poliziotti si scontrarono, dapprima con lanci di uova, arance e ortaggi. Poi con pietre e, infine, con il fuoco. Si registrarono 148 feriti tra le forze dell’ordine e 478 tra gli studenti. Oltre a 4 arresti e 228 fermi.
Era la prima volta che un gruppo di manifestanti, di fronte all’intervento della polizia, aveva scelto di reagire invece che di lasciarsi portare via o ritirarsi.
Oggi, studiosi e politologi come Paolo Pombeni, parlano dei movimenti di protesta del ’68 come di una “dissoluzione talmente repentina e irreversibile che alla forza della pars destruens non è seguita una pars construens proporzionata alla sfida lanciata“. La quale, tuttavia, “ha sancito ufficialmente una laicizzazione socioculturale“. Difatti, i manifestanti non riuscirono mai a raggiungere un’organizzazione tale da entrare in politica.
Ebbero però un ruolo fondamentale nelle manifestazioni di dissenso che seguirono nella storia d’Italia.

Il G8 di Genova e la Diaz: una ferita ancora aperta

Quando si parla di dissenso in Italia, non si possono tralasciare i fatti avvenuti a Genova in occasione del G8 del 2001.
Tra il 19 e il 21 luglio, la città ligure ospitava i leader delle grandi potenze economiche globali, riuniti a Palazzo Ducale per “individuare misure atte a sostenere l’economia dei paesi più fragili secondo una strategia integrata, specie per quanto riguarda commercio e investimenti sociali“.
Intanto, tra la popolazione, si preparavano diversi cortei di protesta. Quelli per la rivendicazione dei diritti degli immigrati, per l’ambiente, per i diritti delle donne, per i lavoratori, e soprattutto quelli contro il movimento globalista.
Per le strade di Genova si incrociarono cortei pacifici e black bloc violenti, finendo per creare una tragica confusione.
Durante quei giorni, la polizia, invece che sedare i disordini, reagì con una violenza inaudita.
Dapprima con lacrimogeni e pestaggi, poi con qualsiasi altro mezzo disponibile. Alcuni manifestanti reagirono barricandosi, altri risposero con altrettanta violenza. Da questi scontri, risultò la morte del 23enne Carlo Giuliani.
Il culmine della repressione si raggiunse nella scuola Diaz, sede autorizzata del media center del Genoa Social Forum (rete di movimenti di contestazione no global).
Oltre 100 poliziotti fecero irruzione in tenuta antisommossa nell’edificio, perché “sospettavano la presenza di simpatizzanti dei black bloc“, e la violenza fu tale che venne definita “una macelleria messicana“. I feriti furono oltre 80, tra cui un giornalista che finì in coma.
La repressione seguì nelle caserme di polizia, in particolare quella di Bolzaneto. I fermati riferirono di torture e pestaggi, insulti e minacce.
Per tre giorni, lo Stato di Diritto fu totalmente ignorato. In seguito, Amnesty International definì i fatti del G8 di Genovala più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale“.
Il G8 fu oggetti di scontri anche nel 2006, con sede a San Pietroburgo, in Russia.
Anche in questo caso, si riunirono attivisti ambientali, anti-globalizzazione, sindacati e gruppi di studenti per protestare contro la disuguaglianza economica, il degrado ambientale, la militarizzazione e le politiche degli Stati membri del G8.
Nonostante sporadici episodi di scontri, le proteste di Pisa furono pacifiche, e sottolinearono una forte opposizione a quella che era percepita come una natura antidemocratica ed elitaria del G8.

Dal 2008 a oggi: le proteste per l’ambiente e la salute

Il 2008 fu un anno di forte dissenso in Italia, a partire dalla Campania.
La popolazione era alle prese ormai da anni con l’inefficienza della gestione dei rifiuti. La quale si ripercuoteva sull’ambiente e sulla sanità.
La “crisi dei rifiuti” era il risultato di numerosi fattori, tra cui: infrastrutture inadeguate, corruzione politica, coinvolgimento della criminalità organizzata, mancanza di una pianificazione a lungo termine per lo smaltimento dei rifiuti.
A Napoli, le manifestazioni degenerarono in fretta nella violenza, con lanci di oggetti e blocchi stradali, ai quali le forze dell’ordine risposero con gas lacrimogeni e manganellate.
Le proteste si diffusero anche in Sardegna e in Sicilia, raggiungendo picchi di violenza e scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. I primi colpivano con pietre, molotov e proiettili, i secondi rispondevano con gas lacrimogeni, manganelli e cannoni ad acqua.
Si contarono feriti da entrambe le parti, oltre a danni alla proprietà, atti di vandalismo su veicoli e su infrastrutture pubbliche.
Oggi, mentre sul pianeta incombe il cambiamento climatico, il dissenso contro le politiche governative che danneggiano l’uomo e il pianeta è tornato a far sentire la propria voce. In particolare, tramite manifestazioni, blocchi stradali e flash mobs non violenti.
A queste iniziative, il governo ha risposto con presidi di polizia in tenuta anti-sommossa, sanzioni giudiziarie, misure cautelari sproporzionate e intimidazioni.

Dissenso in Italia e repressione: l’alternanza scuola-lavoro

Il 21 gennaio del 2022, il 18enne udinese Lorenzo Parelli, che svolgeva alternanza scuola-lavoro in una fabbrica Burimec, morì schiacciato da una putrella d’acciaio.
Quello fu l’evento scatenante di una serie di proteste contro la gestione dell’alternanza scuola-lavoro, che si incrociava con il problema delle cosiddette “morti bianche“.




Molti giovani studenti, a Roma, Napoli, Milano, Torino e Padova, scesero in piazza per esprimere il loro dissenso contro lo sfruttamento della manodopera studentesca, e per richiedere maggiori tutele sul lavoro.
I cortei, originariamente pacifici, sfociarono presto in violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Gli studenti, armati solo di fumogeni e vernice rossa, diffusero filmati e testimonianze di cariche della polizia, che avevano reagito con calci e manganellate.
Alle denunce, il portavoce dei funzionari di polizia rispose che gli studenti “avevano superato il limite.

In una lettera dal titolo “Ministro, mi spieghi le botte“, diffusa su quotidiani e giornali e diretta alla Ministra dell’Interno Lamorgese, un giovane manifestante scrisse:

Domenica sono stato colpito alla testa da una manganellata durante una manifestazione per la morte di Lorenzo Parelli, io e altri 3 ragazzi abbiamo riportato ferite suturate con dei punti. Sempre domenica al Pantheon la polizia ha caricato gli studenti con una violenza inaudita e senza un valido motivo. A Torino, durante altre manifestazioni studentesche, venerdì scorso, ci sono stati 20 feriti tra cui due gravi.

Sorgono doverosi dubbi sullo stato di salute della nostra democrazia. La responsabilità è della ministra Lamorgese, alla quale va chiesto conto e ragione della condotta muscolare delle forze dell’ordine in dinamiche di piazza di solito gestite nella totale tranquillità e calma

Poco meno di un mese dopo, un altro studente, il 16enne Giuseppe Lenoci, morì in un incidente stradale mentre si trovava su un furgone durante l’esperienza di lavoro.
Ciò riaccese le proteste in oltre 40 città d’Italia, risultate ancora una volta in disordini e violenze contro i giovani studenti.
Questi richiesero le dimissioni della Ministra dell’Interno, e del Ministro dell’Istruzione Bianchi. Oltre all’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro e la revisione dei modelli di formazione professionale.

Mentre Lamorgese difese sempre l’operato delle forze dell’ordine, il ministro Bianchi condannò l’uso dei manganelli durante le proteste e si mostrò aperto al dialogo.
Il tutto si concluse con alcune riforme, tra cui l’istituzione di nuovi obblighi per le imprese e l’istituzione di un fondo per gli indennizzi degli infortuni mortali.

A Pisa contro la guerra: l’arma della non-indifferenza

Risalgono a pochi giorni fa le proteste, sfociate in violenza, tenute a Pisa, Firenze e Catania.
Dallo scorso ottobre, con l’escalation del conflitto tra Israele e Palestina, si sono moltiplicati, in Italia e nel mondo, gli appelli alla pace e al cessate il fuoco.
Più in particolare, molti dei movimenti per la liberazione della Palestina si sono riversati nelle strade, denunciando quello che, ormai, si sta configurando come un genocidio.

Dopo una giornata di sciopero generale, lo scorso 23 febbraio, in Piazza dei cavalieri a Pisa, un corteo pacifico di studenti (perlopiù minorenni) si è scontrato con le forze dell’ordine in tenuta anti-sommossa, che hanno reagito violentemente con scudi e manganelli.
La sera seguente a questi fatti, centinaia di cittadini sono scesi nella Piazza dei Cavalieri in solidarietà ai manifestanti bloccati e picchiati.

Dopo le numerose denunce, le forze dell’ordine hanno annunciato che “gli episodi saranno oggetto di riflessione e verifica sugli aspetti organizzativi ed operativi”. Mentre dal Quirinale è arrivato un comunicato che denuncia l’utilizzo dei manganelli, definendolo “un fallimento“.

Con i ragazzi, i manganelli esprimono un fallimento.
L’autorevolezza delle forze dell’ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni

Parole che si riferiscono ai fatti di Pisa, ma dalle quali è necessario far partire riflessioni sulle manifestazioni di dissenso in Italia e sul ruolo delle forze dell’ordine.

Giulia Calvani

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