Disordini in Kosovo: la polveriera dei Balcani torna a minacciare l’equilibrio europeo

I disordini in Kosovo causati da proteste della popolazione serba contro i neoeletti sindaci di etnia albanese.

Si riaccendono i disordini in Kosovo dove gruppi di manifestanti di etnia serba si sono mobilitati davanti ai municipi di Zvecan, Leposavic e Zubin Potok per protestare contro l’elezione e l’insediamento dei nuovi sindaci di etnia albanese.

L’escalation dei disordini in Kosovo è avvenuta il 29 maggio scorso nella cittadina di Zvecan dove i manifestanti di etnia serba si sono scontrati con le forze della Kosovo Force (KFOR), una squadra di sicurezza della NATO presente nel territorio dal 1999 e delegata dalle Nazioni Unite.

Durante gli scontri sono rimasti feriti 52 manifestanti e 34 militari della KFOR tra cui 14 soldati italiani, tre dei quali hanno riportato ferite gravi, ma non sono in pericolo di vita.

Muro contro muro tra Serbia e Kosovo: cosa è successo

I disordini in Kosovo si sono innescati nella giornata di lunedì 29 maggio, nel nord della nazione, quando gruppi di manifestanti di etnia serba si sono stanziati davanti ai municipi di diverse cittadine prevalentemente abitate da serbi, con lo scopo di protestare e impedire l’insediamento dei sindaci di etnia albanese eletti ad aprile 2023 tramite delle elezioni che sono state caratterizzate da un boicottaggio da parte dei serbi stessi e da una vittoria elettorale dettata appena dal 4% di affluenza alle urne.

Proprio per questo, mentre i sindaci neoeletti cercavano di entrare nei municipi scortati dalla polizia di Pristina, i manifestanti serbi si sono radunati per impedirne l’ingresso e come conseguenza sono nati degli scontri violenti, durante i quali sono stati utilizzati lacrimogeni, manganelli e bombe assordanti.

L’episodio principale è avvenuto nella cittadina di Zvecan, dove la polizia kosovara e le forze della KFOR sono intervenuti per sgomberare la zona del Municipio.

“Noi non siamo criminali, vogliamo solo la libertà’‘Non ci caccerete dalle nostre case’‘Vogliamo la pace, non lacrimogeni e bombe” citavano gli slogan sui cartelli dei manifestanti

L’effetto di questi disordini in Kosovo, oltre a creare una crisi civile interna al paese, ha generato una ripercussione diplomatica al di fuori dei confini che ha allertato le potenze mondiali, e principalmente l’Unione Europea, in merito ad una possibile minaccia sempre più concreta.




Le reazioni delle potenze mondiali ai disordini in Kosovo

Mentre il Presidente serbo Aleksandar Vučić colpevolizza il primo ministro del Kosovo Albin Kurti, quest’ultimo addossa la responsabilità dei recenti avvenimenti a “una teppa di estremisti sotto la direzione di Belgrado” ed enfatizza una possibile accusa a Mosca, in quanto sono apparsi graffiti con la lettera  “Z” riconducibili all’ammirazione verso Putin.

La risposta del Cremlino non si fa attendere:

“Una grande esplosione è stata preparata nel centro dell’Europa, nel posto dove, nel 1999, la Nato attaccò la Jugoslavia violando ogni immaginabile regola internazionale” afferma il ministro degli Esteri Sergej Lavrov all’agenzia russa RIA Novosti.

A tali dichiarazioni si aggiungono le forti e prevedibili parole del portavoce del Cremlino Dimitri Peskov con le quali riconferma il totale appoggio alla Serbia e ai serbi.

La Nato, invece, si è immediatamente attivata ordinando il rinforzo del dispositivo di difesa schierato in Kosovo con l’aggiunta di 700 uomini, come affermato dal Segretario generale Jean Stoltenberg.

La risposta europea arriva dall’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell, il quale dopo aver parlato separatamente con il Presidente serbo e con il Presidente Kosovaro, dichiara l’urgenza di nuove elezioni, condannando la violenza che nei giorni scorsi ha invaso il nord del Kosovo.

Risposta inattesa, invece, è stata quella degli Stati Uniti che si sono in un certo senso uniti alla condanna verso Pristina. Infatti, il Segretario di Stato, Antony Blinken, ha ribadito che il Governo del Kosovo forzando l’accesso dei neoeletti sindaci ai municipi , ha influito sull’aumento delle tensioni che come si poteva prevedere sono sfociate in scontri e violenza.

Le origini delle controversie tra Kosovo e Serbia

Nel novembre del 1995 fu siglato a Dayton un accordo di pace che prevedeva il mantenimento di uno Stato bosniaco diviso tra una federazione croato-musulmana e una Repubblica serba.

In seguito a tale concordato, la guerra in Jugoslavia si credeva “terminata”, ma le tensioni politiche interne ai singoli Stati non cessarono di esistere. Infatti, nel 1998, la crisi del Kosovo si riproponeva in termini drammatici.

Il Kosovo era una regione autonoma appartenente alla Serbia, ma vi era un’importante percentuale di popolazione di etnia albanese che viveva in questi territori.

In risposta a una protesta mossa dalla popolazione albanese con la quale rivendicavano la loro autonomia e in seguito alla nascita dell’Uck (un movimento di guerriglia indipendentista albanese), i serbi avviarono un’operazione di repressione appoggiata dall’allora Presidente del governo serbo, Slobodan Milošević.

Furono i paesi della Nato ad intervenire: in un primo momento fecero pressioni sul Presidente Milošević affinché ponesse fine a tale repressione e restituisse al Kosovo le sue autonomie, ma successivamente, di fronte alla resistenza del popolo serbo, avviarono un’operazione militare aerea su larga scala.
Fra il marzo e il giugno 1999, il territorio jugoslavo fu sistematicamente bombardato e i serbi risposero intensificando la “pulizia etnica” nei territori del Kosovo.

Se da una parte gli Stati Uniti furono coloro che appoggiarono maggiormente l’intervento militare della Nato giustificando i bombardamenti con la necessità di difendere i diritti della popolazione, dall’altra, invece, la Russia, tradizionale alleata dei serbi, condannò tale decisione e suscitò forti discussioni nell’opinione pubblica dei paesi occidentali.

Nonostante ciò, grazie anche alla mediazione della Russia, nel 2000 Milošević si arrese e ritirò le sue truppe dal Kosovo che rimase sotto controllo della Nato e solamente nel 2008 auto-dichiarerà la propria indipendenza.

Andrea Montini

 

 

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