Discriminazione religiosa fermata dalla Corte Costituzionale. Dichiarata incostituzionale la legge della Regione Veneto che stabiliva nelle convenzioni urbanistiche la previsione «dell’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto».
Con una sentenza molto importante, la numero 67 pubblicata il 7 aprile, la Corte Costituzionale cancella un significativo articolo della legge regionale del Veneto dal contenuto non troppo velatamente razzista, con la quale, la regione a maggioranza leghista, voleva nei fatti obbligare l’utilizzo della lingua italiana all’interno degli edifici religiosi, con il chiaro intento rivolto a quelli islamici.
Nel disciplinare gli interventi comunali di urbanizzazione per le aree e gli immobili da destinarsi alla realizzazione di attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, la norma prevedeva che il soggetto richiedente la realizzazione dell’attrezzatura sottoscrivesse con il Comune una convenzione nella quale potesse essere previsto l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto. Il provvedimento era stato impugnato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri che aveva rilevato come la normativa regionale – in particolare l’art. 2 della legge della Regione Veneto 12 aprile 2016, n. 12 (Modifica della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 recante “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio” e successive modificazioni), che introduce gli artt. 31-bis e 31-ter nella legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio), violasse gli artt. 2, 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettere c) e h), della Costituzione, in quanto travalicherebbe la finalità, di natura tipicamente urbanistica, della convenzione per incidere sull’esercizio della libertà di culto, libertà che non si esaurisce nello svolgimento delle pratiche rituali, ma ricomprende «anche le attività collaterali, come quelle ricreative, aggregative, culturali, sociali, educative, nell’ambito delle quali la libertà religiosa trova la sua pienezza di espressione».
La Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità, ha ritenuto fondate le motivazioni addotte dall’Avvocatura Generale dello Stato e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della su citata normativa proprio nella parte in cui si legge: «Nella convenzione può, altresì, essere previsto l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto» rilevando fra l’altro che ««A fronte dell’importanza della lingua quale «elemento di identità individuale e collettiva» (da ultimo, sentenza n. 42 del 2017), veicolo di trasmissione di cultura ed espressione della dimensione relazionale della personalità umana, appare evidente il vizio di una disposizione regionale, come quella impugnata, che si presta a determinare ampie limitazioni di diritti fondamentali della persona di rilievo costituzionale, in difetto di un rapporto chiaro di stretta strumentalità e proporzionalità rispetto ad altri interessi costituzionalmente rilevanti, ricompresi nel perimetro delle attribuzioni regionali.» Uno stop che Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, accoglie con soddisfazione, perchè non può essere utilizzato subdolamente un emendamento introdotto in una legge di natura urbanistica che, al contrario, si rivela per la sua finalità di limitare l’esercizio della libertà di culto in un Paese, come l’Italia dove tra i 60 milioni di residenti, vi sono 1,6 milioni di musulmani praticanti che hanno il diritto di professare liberamente il proprio credo.