Vittime invisibili con disabilità hanno finalmente voce in India, questo ci suggerisce la sentenza emanata nell’aprile scorso dalla Corte Suprema Indiana.
Il caso ha coinvolto una donna cieca di 19 anni che è stata violentata da un amico di suo fratello nel 2011. La Corte nella sua sentenza, resa dal giudice Dhananjaya Chandrachud, evidenzia come le violenze su donne affette da disabilità siano largamente diffuse.
Per molte donne e ragazze disabili in India, la minaccia di violenza è un appuntamento troppo familiare delle loro vite, che contrae la loro libertà costituzionalmente garantita di muoversi liberamente e limita la loro capacità di condurre una vita piena e attiva
Viene inoltre stabilito come le donne con disabilità non siano deboli, indifese o incapaci.
Una tale presunzione negativa di disabilità che si traduce in incapacità sarebbe incoerente con la concettualizzazione lungimirante delle vite disabili incarnata nella nostra legge e, sempre più, anche se lentamente, nella nostra coscienza sociale
La sentenza ha di per sé dei connotati innovativi nel sistema giuridico indiano, e non solo. La sopravvissuta allo stupro ha infatti identificato il colpevole dalla voce, che le era familiare, e quindi si sottolinea che tale testimonianza dovrebbe avere lo stesso peso legale di un’identificazione visiva. Anche se l’incidente è avvenuto nel 2011, prima dell’adozione del Criminal Law Amendments Act del 2013 (legge promulgata in seguito allo stupro di gruppo e all’omicidio di una giovane donna a Delhi), questa sentenza dimostra che possono essere considerati giuridicamente validi elementi che possono essere rilevanti per processi giudiziari che vedono come vittime persone con disabilità.
In India stupri, gli abusi sessuali e violenze domestiche su donne e bambine sono largamente diffusi (uno stupro verrebbe denunciato circa ogni 15 minuti) , diventando un problema socio-culturale. Evidenza di ciò è riscontrabile anche nei palazzi di giustizia, dove ad esempio il giudice Sharad Arvind Bobde, al tempo presidente della Corte Suprema Indiana, nel marzo di quest’anno suggerì ad un imputato di sposare la vittima della violenza sessuale al fine di evitare il carcere.
Questa sentenza di fondamentale importanza fa scricchiolare una situazione diffusa basata su violenze e su violazione di diritti, avvicinando l’India ad una consapevolezza sociale e culturale di un fenomeno reale e ora più che mai attuale. La parola delle donne con disabilità, e non solo, in un sistema violento e fortemente discriminatorio, da questi piccoli ma importanti passi, ne esce forte e incisiva non solo giuridicamente ma anche culturalmente. Chi non ha voce finalmente può urlare il proprio dolore e la propria sofferenza senza rimanere invisibile ed inascoltata alle orecchie sorde della comunità indiana e mondiale.
Matteo Abbà