D’ora in avanti, negli Emirati Arabi Uniti i non musulmani potranno sposarsi, divorziare e regolamentare questioni relative all’affidamento dei figli e all’eredità in base al diritto civile e non più secondo i principi della Sharia. Quali i veri obiettivi dietro alla scelta di Abu Dhabi?
La notizia è stata diffusa dall’agenzia di stampa nazionale WAM, che ha riportato il contenuto del decreto emanato domenica da Khalifa Bin Zayed al-Nahyan in materia di diritto civile e status personale dei residenti negli Emirati. Kalifa Bin Zayed ricopre la carica di Presidente degli Emirati Arabi Uniti dal 2004, in un paese dove, affianco ad una costituzione che sancisce una giurisdizione di tipo civile, in molte materie è ancora applicata la Sharia. Ad oggi, la legge islamica ha regolato la quasi totalità degli aspetti legati al diritto di famiglia e di successione, nonché alcune tipologie di atti criminali.
Il decreto sancisce anche l’istituzione di un nuovo tribunale, che sarà proprio responsabile di gestire le questioni di diritto familiare di coloro che non professano la fede islamica. Il tribunale opererà sia in arabo sia in inglese: un passo significativo nella direzione di una maggior trasparenza e accessibilità del sistema giudiziario, soprattutto per gli stranieri. In generale, il decreto è stato salutato da molti come un segnale positivo di integrazione della popolazione degli Emirati a prescindere dall’apparenza religiosa.
L’annuncio di Kalifa Bin Zayed riguardo al prevalere del diritto civile sulla Sharia – sebbene limitatamente agli aspetti in materia familiare – acquisisce particolare rilevanza se si tiene conto della distribuzione dell’appartenenza religiosa negli Emirati Arabi Uniti. Secondo le stime più recenti, poco meno del 77% dei cittadini si professa di fede islamica; tuttavia, solamente l’11% della popolazione è cittadina, mentre quasi il 90% è straniera (principalmente proveniente da India, Pakistan e Bangladesh). Il paese detiene infatti il più alto tasso migratorio al mondo, in media intorno al 20% ogni anno.
Con l’entrata in vigore del decreto la leadership delle Federazione affianca il proprio meccanismo giuridico agli standard di aconfessionalità e flessibilità internazionali.
Una lettura più ampia colloca però la decisione nel contesto degli sforzi che gli Emirati stanno portando avanti per rafforzare la propria posizione di hub commerciale nella Penisola araba, nonché per attrarre talenti e know-how che ne stimolino la crescita economica.
In linea con gli altri stati della regione, anche l’economia degli Emirati è trascinata dallo sfruttamento delle risorse naturali -idrocarburi in primis- e dalla vendita di petrolio. Ciononostante, rispetto alle altre monarchie del Golfo -come l’Arabia Saudita-, la Federazione ha investito anche in settori quali quello immobiliare, finanziario e commerciale allo scopo di diversificare la propria rendita e mettersi al riparo dalle oscillazioni del mercato petrolifero.
Non a caso Abu Dhabi è una delle maggiori capitali a livello mondiale della finanza islamica, con il fondo sovrano ADIA – Abu Dhabi Investment Authority – che detiene importanti asset strategici. Gli Emirati sono anche sede di alcune compagnie leader nel settore del trasporto di merci e persone, come le due compagnie aeree Etihad ed Emirates Airlines e la più grande società di trasporto merci al mondo DP World.
Sotto la guida di Kalifa Bin Zayed, gli Emirati hanno sfruttato i propri mezzi finanziari e di soft power per espandersi ben oltre i confini della Penisola araba, puntando al subcontinente indiano, nonché ad Asia e Africa. L’annuncio di domenica fa parte quindi della strategia di Abu Dhabi finalizzata a incrementare l’influenza della Federazione nel settore finanziario e dei trasposti. Il piano d’azione si fonda su due operazioni complementari: proiettare all’estero un’immagine positiva di sé e porsi come fautori del dialogo interreligioso.
Esempi del successo della strategia di espansionismo economico degli Emirati Arabi Uniti sono la firma dell’accordo con il governo separatista del Somaliland per la cessione del controllo del porto di Berbera a DP World e le concessioni ottenute nei porti eritrei di Assab e Massaua. Obiettivo ultimo è assicurarsi il controllo del tratto di mare del Corno d’Africa, destinato a diventare un punto di passaggio cruciale del commercio mondiale.
In tal senso è interpretabile anche la discesa in campo di Abu Dhabi accanto all’Arabia Saudita nel conflitto yemenita. Entrambi i paesi arabi si sono schierati contro le forze huthi e a sostegno di quelle governative. Tuttavia, nonostante gli Emirati siano parte della coalizione a guida Riyadh, Abu Dhabi ha fin da subito perseguito obiettivi indipendenti: il controllo dei principali porti yemeniti (Mukalla e Hodeida) e il rafforzamento della propria posizione strategica nel Golfo di Aden – fra Mar Rosso e Mar Arabico.
Instaurare un clima di tolleranza e apertura nei confronti di coloro che risiedono negli Emirati ma che non professano l’Islam potrebbe effettivamente rafforzare il ruolo del paese nei commerci e nella finanza mondiale. La riforma del diritto civile annunciata domenica affianca la decisione di Abu Dhabi dello scorso anno di abolire il delitto d’onore e depenalizzare il consumo e commercio di bevande alcoliche senza apposita licenza.
È importante riconoscere le nuove legislazioni come passi significativi verso una società più aperta, senza però dimenticare che l’ingerenza della sfera religiosa negli affari di stato è tutt’altro che superata. Negli Emirati i valori islamici tradizionali rimangono ben radicati e nessuna riforma ha messo finora in discussione l’ordinamento dello stato: una monarchia assoluta fondata sulla soppressione del dissenso e l’illegalità di partiti politici e sindacati.
Benedetta Oberti