Mai come nei mesi della pandemia di Covid-19 i lavoratori dell’informazione e gli attivisti per la difesa dei diritti umani hanno svolto un ruolo sociale fondamentale.
Soprattutto all’inizio dell’emergenza blogger e giornalisti sono stati decisivi nell’informare la popolazione riguardo la reale portata del virus e i pericoli che la riguardavano. Attivisti per i diritti di tutte le categorie socialmente marginali, dalle minoranze etniche a quelle di orientamento sessuale, si sono spesi per denunciare il fatto che gli individui ad esse appartenenti erano quelli più colpiti dal virus e dalle sue conseguenze.
Ma come si sono comportati i governi nei confronti di giornalisti e attivisti?
La risposta, ovviamente, dipende dai singoli casi. Se ne dovessimo fornire una sintetica, però, sarebbe “non bene”.
Nonostante gli appelli delle associazioni di difesa dei diritti umani lanciati ad inizio pandemia affinché i doveri fondamentali nei confronti della dignità umana venissero sempre osservati, alcuni governi hanno approfittato dell’eccezionalità della situazione per espandere il proprio potere e sottrarre libertà ai cittadini.
Un report di Amnesty International dal titolo “Daring to stand up for human rights in a pandemic”, dimostra a tutti gli effetti che dallo scoppio della pandemia si è registrato un peggioramento nella vita di giornalisti e difensori dei diritti umani.
L’azione principale promossa dai governi è stata, infatti, quella di limitare la libertà di informazione.
Con la scusa di voler combattere la diffusione di “fake news” in alcuni Stati sono state promosse leggi volte a silenziare giornalisti e blogger.
Tali provvedimenti, ad esempio, sono stati adottati nelle Filippine dove, grazie ai poteri speciali di cui il governo era stato ricoperto per combattere la pandemia, è stata promulgata una legge contro “la creazione e la diffusione di false notizie”.
Il risultato di questa norma è stato che le forze investigative nazionali hanno spesso prelevato e interrogato persone che avevano osato criticare l’azione del governo nella gestione della pandemia.
Il Presidente Duterte, in Aprile, ha esplicitamente incitato la polizia a sparare contro i manifestanti che mettevano in dubbio il suo operato. Oltre a questo ha anche incoraggiato rappresaglie contro giornalisti o attivisti per i diritti umani. Un senatore e consigliere di Duterte, inoltre, ha informato la stampa di aver pronti sacchi per i corpi di “drogati e venditori di false notizie”.
Molti giornalisti sono stati presi di mira dal punto di vista legale. A Giugno, poi, è stata promulgata una nuova legge che definisce il reato di “terrorismo” in modo tanto vago che anche la minima forma di critica all’esecutivo può rientrare in tale categoria.
Una situazione simile si è registrata in Ungheria.
L’attribuzione dei pieni poteri ad Orbán votata dal parlamento era stata salutata con grande entusiasmo e definita come una grande prova di democrazia dai sovranisti nostrani che oggi gridano allo scandalo per la decisione del governo presieduto da Conte di chiudere tutta Italia nel Marzo scorso.
I dati di Amnesty International ci dicono che, grazie ai poteri speciali assunti nel periodo di emergenza, Orbán ha potuto compiere azioni che hanno peggiorato ulteriormente la situazione dei diritti in Ungheria.
Il reato di “allarmismo” è stato modificato. Secondo la nuova norma approvata, in periodi eccezionali, chiunque diffonda false informazioni a grandi platee di persone con il rischio di danneggiare la sicurezza pubblica, può incorrere in un’accusa che vale fino a cinque anni di prigione.
Inutile dire che una legge di questo genere ha reso più pericoloso il lavoro dei giornalisti esposti al rischio di essere accusati nel caso in cui quanto da loro scritto risulti poco apprezzato dal presidente. Nel periodo della pandemia, inoltre, tale norma ha reso i rappresentati del personale sanitario restii a parlare con i reporter per informarli sulla reale situazione epidemica per paura di ritorsioni.
È bene precisare che con la fine dello stato di emergenza tale emendamento del codice penale è rimasto invariato.
Anche là dove tutto è iniziato, ovvero in Cina, le cose non vanno tanto meglio.
Molti giornalisti sono stati presi di mira per aver fatto circolare notizie sul virus non gradite al potere politico e, insieme a loro, tanti medici. Famoso è il caso di Li Wenliang, lo scienziato arrestato dalla polizia di Wuhan per aver lanciato il primo allarme sulla reale gravità della situazione. Si è sentito molto parlare di lui perché il suo eroismo è stato riconosciuto dal mondo dopo che lui stesso è deceduto a causa del virus.
Il governo, però, anche adesso che la situazione è migliorata, non ha cessato di prendere di mira chi cerca di portare avanti un’informazione trasparente sull’argomento virus. In Aprile l’attivista Chen Mei è stato prelevato dalla polizia insieme ad altre due persone per il loro coinvolgimento nella pubblicazione postuma di articoli censurati relativi al Covid-19. Dopo due mesi di silenzio la famiglia ha saputo che l’attivista è detenuto per “provoking trouble”.
In molti altri paesi si sono verificate situazioni simili. In Polonia due persone sono state arrestate con false accuse per aver affisso manifesti in cui accusavano il governo di manipolare i numeri della pandemia, mentre in America si sono verificati episodi di licenziamenti ingiustificati o molestie ai danni di dipendenti sanitari colpevoli di aver prodotto testimonianze riguardo le loro reali condizioni di lavoro.
Alcuni Stati hanno trovato altri modi di mettere in difficoltà giornalisti e attivisti.
In Turchia, Egitto ed Iran, ad esempio, pur perseguendo politiche di svuotamento delle carceri, i governi hanno scelto di lasciare prigionieri coloro che sono rinchiusi perché accusati di crimini di opinione. Il caso più celebre in Italia è quello che riguarda lo studente dell’Università di Bologna, Patrick Zaki.
In Stati già a rischio come la Colombia il numero di attivisti uccisi negli ultimi mesi è ulteriormente aumentato.
Il motivo è che, date le regole del contenimento del virus, i difensori dei diritti umani sono diventati bersagli stabili. I governi hanno mancato di aumentare il livello delle loro protezioni anche di fronte all’evidenza del maggior pericolo che corrono essendo impossibilitati a muoversi e a nascondersi.
In generale, poi, coloro che si battono per i diritti delle comunità marginali vivono al loro interno e sono, per questo, più esposti alle conseguenze sanitarie e sociali del virus.
Da questi pochi esempi si riesce già a comprendere che molti governi hanno deciso ancora una volta di ostacolare, attivamente o indirettamente, l’azione di chi si batte per i diritti umani invece di collaborare con loro al fine di preservare la salute collettiva. In questo periodo tale atteggiamento ha rivelato, in modo ancora più evidente del normale, i suoi limiti. Il virus avrebbe potuto costare al mondo molte meno vittime se coloro che conoscono bene i luoghi in cui si concentrano le debolezze delle nostre società fossero stati ascoltati.
Silvia Andreozzi