Didone, regina di Cartagine, è molto di più della donna sedotta e abbandonata che ritraggono i poeti latini Ovidio e Virgilio. Vero, dopo Enea non c’è più stata una Didone; il mito, però, racconta che ce n’è stata una prima e oltre l’eroe troiano. Una donna capace, per ingegno, ardimento e attitudine al governo, di eguagliare molti re, principi e guerrieri celeberrimi, se non di superarli.
Siamo abituati a pensare a Didone come all’infelice regina di Cartagine abbandonata dall’eroe troiano Enea per cause di forza maggiore. Perché, si sa, quando gli Dei chiamano bisogna andare. E così, nel racconto del poeta Ovidio come in quello di Virgilio, Didone è sì nobile, valorosa, generosa, ma è anche debole. Debole, verrebbe da dire a esser cattivi (o brutalmente schietti), come solo una donna potrebbe essere. Eppure, a scavare un po’ nel mito, si scopre che Didone – nota anche come Elissa – è tutt’altro che debole. Non è donna che s’ammali d’amore perché fragile e bisognosa di un uomo forte al suo fianco.
All’arrivo di Enea sulle sue coste, infatti, Didone è già scampata a un attentato ordito dal fratello. Ha preferito l’esilio al vedere la sua gente decimata da una guerra civile. Ha condotto chi le era rimasto fedele in una nuova terra. E, grazie al suo straordinario ingegno, ha trasformato l’oltraggio di un re straniero nelle fondamenta di un impero. Non sembra il classico ritratto della donzella in difficoltà, vero?
Prima di Cartagine: la Fenicia e l’esilio
Didone è sempre stata una regina, anche se non è nata regina di Cartagine. Il suo precedente regno, infatti, si trovava a Tiro, in Fenicia. Figlia primogenita del re Belo, era la prima in linea di successione. In quanto tale, alla morte del padre era ascesa al trono, iniziando a governare il popolo insieme al marito Sicheo. La felicità coniugale e monarchica di Didone, però, non era destinata a durare. Infatti, suo fratello Pigmalione, desiderando impadronirsi del potere, fece uccidere di nascosto Sicheo e ne fece sparire il corpo. Rimanendo poi in attesa di cogliere il momento opportuno e riservare lo stesso trattamento alla regina. Cosa che gli sarebbe senz’altro riuscita, se il fantasma di Sicheo non fosse apparso in sogno a Didone per svelarle la propria fine e avvertirla del pericolo.
Giovane, ma tutt’altro che sprovveduta, Didone si rendeva conto che non c’era in gioco soltanto la sua sopravvivenza, ma anche quella del suo popolo. Molti le erano fedeli, ma non erano pochi nemmeno quelli che si sarebbero schierati con Pigmalione. Il rischio di una sanguinosa guerra civile, così, era più che concreto. Perciò, la regina scelse di valersi senza esitazione dell’effetto sorpresa: fece fare i bagagli ai propri fedelissimi e si preparò a partire. Non prima, naturalmente, di aver ripulito le casseforti contenenti il tesoro reale, per garantire a sé e a chi l’avrebbe seguita risorse materiali sufficienti. Così, col favore delle tenebre e un manipolo di navi, in perfetto silenzio e guardandosi le spalle Didone lasciava Tiro e il proprio regno. Senza sapere ancora di far vela verso la fondazione di un regno ancora più grande, la cui fama sarebbe echeggiata per millenni.
Didone, l’esule che con una pelle di bue fondò un impero
Le peregrinazioni della futura regina di Cartagine furono lunghe e dolorose. Lei e il suo popolo, infatti, errarono tra le coste e le isole del mediterraneo orientale, toccando Cipro e Malta. Infine, stremati, approdarono sulle coste libiche. Ben presto, però, ebbero notizia dei Getuli, bellicosa popolazione locale cui quelle terre appartenevano, e del loro re Iarba. Invaghito dell’avvenente e ricca straniera, il giovane sovrano – figlio nientemeno che di Giove Ammone e di una ninfa – le offrì protezione e un matrimonio. Per nulla attratta da lui, però, Didone rifiutò. Iarba, allora, finse di prenderla sportivamente: concesse agli stranieri di restare, prendendo però tanta terra quanta poteva contenerne una pelle di bue.
Offesi e scoraggiati, i Fenici si stavano già preparando a ripartire, quando la regina li fermò. Disse loro che il re dei Getuli era stato, involontariamente, davvero generoso. Davanti agli occhi esterrefatti dei marinai, Didone insieme alle sarte più esperte prese a tagliare una pelle di bue in striscioline sottilissime. E, ponendole una in fila all’altra, con esse delimitò un’enorme porzione di territorio, ritagliando saggiamente il confine di un ampio promontorio. La leggenda vuole che, grazie a questo stratagemma, Didone sia riuscita a procurare al suo popolo un territorio originario di quasi cento ettari. Che sarebbe cresciuto a mano a mano che cresceva la città fondata dalla regina e dai coloni fenici: Cartagine. La quale, non a caso, sempre secondo il mito in origine ebbe il soprannome di Birsa. Una parola che in fenicio significa “rocca”, ma in greco vuol dire “pelle di bue”.
Vale la pena ricordare una curiosità. Lo stratagemma di Didone per secoli ha appassionato i matematici. Questi, infatti, hanno definito come “problema di Didone” lo stabilire quale figura, a parità di area, possa avere un perimetro maggiore. La soluzione è arrivata nell’Ottocento con gli studi di Jakob Steiner, che ipotizzava per l’originaria Cartagine un territorio circolare. Oppure, più probabilmente, un semicerchio di entroterra con la costa come diametro.
Un caleidoscopio di ritratti per una regina infelice
Venerata dal popolo – che alla morte la divinizzò in Tanit, personificazione della dea Astarte, e le offrì grande devozione -, Didone non fu una regina felice. Esistono diverse versioni del mito, ma tutte concordano su due aspetti. Cioè che Didone fu leale e generosa con la sua gente e che la sua fine fu infausta.
Il mito raccontato da Virgilio e Ovidio è noto: innamorata di Enea, Didone si sarebbe data la morte alla partenza dell’eroe troiano. Decidendo, di fatto, il futuro del proprio popolo e dei Romani, che proprio dalla stirpe di Enea sarebbero discesi. Un’inimicizia inveterata, infatti, avrebbe portato Cartagine e Roma a una serie di scontri sanguinosissimi. Essa si sarebbe estinta solo con l’estinzione della stessa città di Didone, alla fine delle guerre puniche. Sulle rovine di Cartagine i vincitori avrebbero sparso il sale, affinché non vi crescesse più nulla.
Non tutti, però, concordano sul fatto che Didone si sia perduta per amore di Enea. Lo storico Giustino, nel III secolo d.C., scriveva ad esempio che la regina di Cartagine morì per fedeltà. Contesa da Iarba e da altri principi Numidi, infatti, Didone avrebbe finto di accettare le nozze per dare tempo al proprio popolo di prepararsi. Poi, fuggiti o pronti alla battaglia i fenici che lasciava dietro di sé, Didone si sarebbe gettata sulla propria spada. Un voto matrimoniale ritenuto sacro, infatti, così come un sincero amore, la legava al defunto Sicheo.
Un’altra leggenda, invece, lega Didone alla famiglia Barca, dalla quale proveniva il famosissimo condottiero Annibale. Secondo questa, Didone dopo la fondazione di Cartagine avrebbe sposato Barca, un fedelissimo che l’aveva seguita da Tiro, originando una stirpe di formidabili guerrieri. Un lieto fine per la regina? Non proprio. Perché, come già sapevano molto bene gli storici antichi, “Barca” non era realmente un cognome. Era un soprannome che Amilcare, padre di Annibale, si era guadagnato durante la prima guerra punica. Questo appellativo, infatti, veniva dal fenicio “barak”, ossia “fulmine”. Didone, insomma, con tutto ciò aveva ben poco a che fare.
Didone e il suo paradosso
Coraggiosa, astuta, saggia, equanime e devota al suo popolo: è una Didone, questa, piuttosto diversa da quella che ci consegna la vulgata della suicida per amore. Come spiegare, allora, un simile cambiamento?
A renderne conto è Virgilio, nel primo libro dell’Eneide. Il poeta, infatti, dopo aver narrato l’arrivo dei Troiani sulle coste libiche, racconta come Venere, madre di Enea, temesse per la sorte del figlio. Didone, infatti, era leale alla dea Giunone, ostile a Enea e ai Troiani, e Venere temeva che l’eroe potesse cadere in un agguato. Perciò, date al figlio Cupido le sembianze di Ascanio e tenuto nascosto il figlioletto di Enea, Venere gli assegna una precisa missione:
nel bel mezzo del banchetto reale, fra le nebbie
del vino, felicissima, Didone
ti prenderà sulle ginocchia e, stretto
fra le sue braccia, ti tempesterà
di dolci baci. Allora tu, nascostamente,
infiammala d’amore e di veleno.
Eneide, I, vv. 926-932
In altre parole, è una forza divina e malefica a produrre nella regina di Cartagine una così rovinosa passione. Un amore dal quale, come aveva sostenuto il sofista Gorgia difendendo Elena di Sparta, non si può fuggire. Che resta da fare, allora? Forse, nulla. Forse proprio per questo resta così incisiva la chiusa della lettera che il Ovidio ha immaginato Didone scrivesse a Enea prima di gettarsi sulla spada. La regina la conclude proprio con un’epigrafe, bellissima quanto crudele:
Enea le diede una causa di morte e la spada,
ma Didone è caduta di sua propria mano.
Valeria Meazza