Quello che lega Didone ed Enea è uno degli amori più tragici della mitologia antica. Tragico, in realtà, per molti motivi. Perché, anzitutto, com’è noto termina con il suicidio della regina. Ma anche perché non corrisposto fino in fondo. E perché, in verità, frutto di un maleficio, che fa della donna uno strumento per il destino di un eroe non proprio magnanimo.
Non è stato Virgilio il colpevole del mio interesse per la vicenda di Didone ed Enea, ma Ovidio. Tanti anni fa, quand’ero ancora al Liceo, mi imbattei per puro caso in una raccolta di poemetti in distici elegiaci abbastanza trascurata. Si studiano, giustamente, le Metamorfosi e la Ars Amatoria, ma pochi insegnanti dedicano più di qualche parola alle Heroides. Di cosa si tratta? Delle lettere in versi che il poeta, tra il 25 a.C. e l’8 d.C., immaginò che le eroine più famose della mitologia inviassero agli amati.
Chi, magari con uno sbuffo, sta ipotizzando che si tratti di un’opera melensa e stucchevole, non si lasci ingannare! Le eroine tratteggiate da Ovidio, infatti, sono donne forti, indipendenti e, in qualche caso, a buon diritto piuttosto arrabbiate. Come Penelope, che rivolge al suo Ulisse “lento a tornare” aspre parole di rimprovero, ricordandogli i doveri di padre, di marito e di re. O come la Didone che si rivolge a Enea in un’ultima lettera d’amore, disperata e furibonda ma non priva della fierezza di una regina.
«Enea le ha dato la ragione di morte e una spada. Didone è caduta di sua propria mano.»
Con queste parole, che la regina chiede alla sorella Anna siano incise sulla tomba che l’accoglierà, termina la lettera che Ovidio fa scrivere a Didone. Una lettera straordinaria per la modernità della caratterizzazione psicologica del personaggio e per la resa del suo vissuto interiore. Perché la regina di Cartagine per tutta la missiva, che scrive ricacciando indietro le lacrime, oscilla tra la minaccia, il contegno sdegnoso e la supplica. Facendo avvertire al lettore contemporaneo tutto il disagio del fissare lo sguardo in un dolore estremamente privato e del tipo meno gestibile. Quello di qualcuno che, avendo il cuore a brandelli, sta perdendo anche la dignità. E che, proprio con la spada che tiene in grembo, a breve darà seguito alla minaccia di togliersi la vita.
A Enea Didone augura di fare naufragio e pentirsi, dopo aver visto morire figlio e compagni, di aver scelto di partire e abbandonarla. Poi se ne pente e supplica gli Dei che all’amato non accada nulla di male. Gli chiede di restare ancora un poco, fino a quando la stagione non sarà più propizia alla navigazione. Lo maledice ancora, accusandolo di empietà e codardia. Gli chiede di restare per sempre. È uno strazio senza speranza, del quale è impossibile non sentirsi partecipi. Eppure, è altrettanto impossibile solidarizzare del tutto con esso, proprio perché appare incontrollabile, fuori da qualsiasi misura.
Proprio da questa tensione mi è nata la curiosità di comprendere meglio la vicenda di Didone ed Enea. Una curiosità che si è accresciuta scoprendo chi fosse Didone prima di diventare la regina suicida abbandonata per dovere (o per ambizione) dall’eroe troiano. Infatti, il mito la ritrae come una regina saggia, astuta ed equanime. Come può essersi smarrita così tanto per amore di un uomo?
Didone ed Enea nel racconto di Virgilio: il veleno di Cupido tra Venere e Giunone
A spiegarlo è Virgilio, tra il primo e il quarto libro dell’Eneide, che Ovidio di certo conosceva. Qui, infatti, la sorte di Didone risulta un danno collaterale delle trame rivali di due Dee, Venere e Giunone. La prima, infatti, è la madre di Enea e sarebbe disposta a tutto pur di proteggere il figlio. La seconda, invece, è un’acerrima nemica dell’eroe troiano, ma anche la divinità protettrice della neofondata Cartagine. Così, quando i Troiani raggiungono mezzo annegati le coste libiche, Giunone cerca nel valore di Enea una difesa per l’ancora fragile città a lei cara. Venere, invece, teme un tranello ai danni della vita e del cammino glorioso dell’eroe. Purtroppo per la regina della città, il cuore di Didone risulta una pedina fondamentale nelle trame di entrambe.
La prima ad agire, già nel libro primo, è la madre di Enea. Venere infatti manda il figlio minore Cupido, Dio della passione amorosa, a stregare la regina, facendogli assumere le sembianze del figlioletto di Enea, Iulo. Didone, che Virgilio definisce «già votata al sacrificio», segna la propria sorte nel momento stesso in cui prende in braccio il bambino. Perché Cupido, scuotendo l’anima di lei, le fa dimenticare la promessa di fedeltà al defunto marito Sicheo e le accende il cuore per Enea. E si tratta di un amore che, per ammissione della stessa Venere, diventerà un veleno.
Vedendo la sua protetta presa da amore per Enea, Giunone propone a Venere di unire in matrimonio la regina della città fenicia e l’eroe troiano. Il suo disegno è sottile: la moglie di Giove, infatti, sa che la stirpe di Enea potrebbe distruggere Cartagine per volere del Fato. Un matrimonio tra Didone ed Enea, però, scongiurerebbe una tale eventualità.
Quando un grande guerriero è anche un uomo piccolo
Venere comprende il piano di Giunone, ma fa buon viso a cattivo gioco e acconsente. Sa bene, infatti, che la Fama – definita da Virgilio «dea schifosa […] spacciatrice di menzogne mescolate al vero» – è già in azione. Gli amori di un eroe e una sovrana, pur celebrati nel segreto di una grotta durante una tempesta, impiegheranno poco a diventare di dominio pubblico. Infatti,correndo dalla costa all’entroterra, questa divinità spaventosa raggiunge il potente e bellicoso popolo dei Getuli. E il loro re, Iarba, che era stato rifiutato da Didone dopo che lei con l’astuzia gli aveva sottratto un pezzettino di regno. In quanto nobile figlio di Giove, il re dei Getuli si rivolge al padre per avere giustizia. E Giove, conoscendo il fato di Enea, manda senza indugi Mercurio a ordinare all’eroe di partire.
È un ordine al quale è impossibile sottrarsi. Perciò, Enea non può essere criticato nel merito. Può esserlo, però, nel metodo. Perché l’eroe – definito “pius” per tutta la narrazione virgiliana – nel comportamento tenuto con Didone fa davvero una magra figura. Inizialmente, infatti, medita di svignarsela in segreto, partendo all’insaputa della regina. E quando lei lo scopre e, adirata, gli si scaglia contro, lui si difende alla meglio. Dicendo che, se avesse avuto scelta, avrebbe preferito vincere la guerra e non perdere né Troia né sua moglie Creusa. Ma il Fato ha voluto così. E, del resto, lui non ha mai celebrato nozze ufficiali con la regina, né ha inteso farlo. Perché non poteva privare né sé stesso, né il proprio figlio, né i Troiani che lo avevano seguito della grandezza che li aspettava. Come se non bastasse, così l’eroe conclude il discorso:
Cessa
di affliggere, perciò, te stessa e me
coi tuoi lamenti: non per mio volere
vado inseguendo le spiagge d’Italia.
(Eneide, IV, vv. 558-562)
«Effera Dido»
In uno scatto d’orgoglio, dopo aver ascoltato tutto ciò, la regina di Cartagine augura il peggio all’eroe troiano e torna alla reggia voltandogli le spalle. Sarà l’ultima conversazione tra Didone ed Enea, anche se non il loro ultimo scambio. Disperata, infatti, Didone manderà la sorella Anna, divenuta amica e confidente dell’eroe, a implorarlo ancora di restare, anche solo fino alla fine dell’inverno. Ma la mente di Enea ormai è lontana, portata dai moniti di Mercurio alle coste del Lazio: gli importa soltanto di partire. E così, quando Anna di ritorno le comunica l’esito negativo della sua ambasceria, la mente di Didone si perde definitivamente tra fosche visioni:
Si sente sola, sempre
in balìa di se stessa, quasi andasse
senza compagni in un lungo cammino,
cercando i Tiri per terre deserte.
(Eneide, IV, vv. 724-727)
Oppressa dall’infelicità e dal senso di colpa per aver tradito la memoria di Sicheo, Didone decide alla fine di darsi la morte. Fa erigere con l’inganno una pira dalla sorella e, con l’aiuto delle ancelle, predispone tutto ciò che sembrerebbe servire a un maleficio. Vuole, così dice alle donne che la circondano, annullare con la magia nera il ricordo di quell’uomo e rendergli infausto il destino. Sconvolta, la donna sa già però cosa intende fare e a cosa quella pira dovrà davvero servire.
Cala la notte: visitato di nuovo in sogno da Mercurio, Enea, pronto a partire il giorno seguente, leva frettolosamente l’ancora con i compagni. Hanno ragione di temere, infatti, un attacco da parte dei Fenici di Didone. Quando, all’alba, la regina vede le vele dei Troiani già lontane, si getta sulla spada che Enea stesso le aveva donato. Lanciando una feroce maledizione che legherà le stirpi di Troiani e Cartaginesi nell’odio per i secoli a venire.
Perché tornare a rileggere il mito di Didone ed Enea
Devo confessarlo: non ho mai amato molto l’Eneide. E rileggendo, a più di dieci anni di distanza, la vicenda amorosa di Didone ed Enea, capisco il perché. Trovare simpatico il progenitore di Romolo e Remo, infatti, è un’impresa non da poco in questo contesto. Eppure, proprio in ciò si trova una grandissima lezione del mito antico, quella che riguarda la complessità ineludibile degli esseri umani e del reale. Un eroe intrepido in battaglia può anche diventare un pavido irresoluto quando si tratta di assumersi le proprie responsabilità di fronte a una donna. E una donna saggia, forte, astuta abbastanza da scampare a pericoli mortali e costruire un regno per sé e il suo popolo, può soccombere all’amore.
Può non essere giusto o edificante: il punto è che è vero. Lo è oggi come lo era all’epoca di composizione dell’Eneide o delle vicende narrate dal mito. Noi esseri umani funzioniamo (anche) così. Forse proprio per questo abbiamo bisogno tanto di continuare a inventare e narrare nuove storie, quanto di tornare a rivolgerci a quelle antiche. In esse, nel bene e nel male, c’è da decifrare un pizzico di verità su ciò che siamo.
Valeria Meazza