L’8 dicembre del 1987 scoppiò in tutto il territorio della Palestina occupata la prima Intifada, una rivolta di un popolo che durò più di sei anni. La prima Intifada palestinese portò allo scontro contro le forze di occupazione israeliane, ma anche migliaia di detenzioni nelle carceri israeliane. Tra le accuse, quella di “resistenza all’occupazione”, che portò ad abusi e violenze di uomini, donne e bambini: una realtà di controllo e repressione che ha radici profonde della storia di colonialismo e brutalità dell’entità di Israele e l’inizio della rivolta di un popolo in lotta.
La scintilla della rivolta
Negli anni precedenti alla prima Intifada, la Cisgiordania e Gaza vivevano in uno stato di tensione permanente. L’espansione degli insediamenti israeliani, in violazione delle risoluzioni ONU, trasformava il paesaggio, sottraendo terre fertili e risorse idriche alle comunità palestinesi. A Gaza, l’accesso all’acqua potabile era limitato, mentre nella Cisgiordania occupata i coloni vivevano in comunità protette da strade riservate e armate. Questa politica alimentava un sentimento di ingiustizia e disperazione, preparando il terreno per un’esplosione sociale.
Il 6 dicembre 1987, un incidente a Gaza segnò il punto di rottura. Un camion dell’esercito israeliano si scontrò con veicoli che trasportavano lavoratori palestinesi, uccidendo quattro persone del campo profughi di Jabalya, nella Striscia di Gaza. Per i residenti, questo non fu un semplice incidente, ma un atto deliberato di violenza coloniale. Le proteste scoppiarono immediatamente, con migliaia di persone scese in strada per manifestare contro l’occupazione.
La tensione crebbe ulteriormente quando, durante le proteste, un giovane palestinese fu ucciso dalle forze israeliane. La rabbia si diffuse rapidamente, trasformandosi in una rivolta generalizzata. La prima Intifada – letteralmente “scuotimento” – non fu solo un conflitto armato, ma un movimento di resistenza popolare che coinvolse scioperi, boicottaggi e manifestazioni di massa.
Proteste e scontri iniziarono ad illuminare le strade dell’intera Palestina occupata: la resistenza palestinese prese il pieno controllo delle città e dei campi profughi, attraverso la costruzione di barricate e munendosi delle armi, sebbene poche, che avevano a disposizione. La prima Intifada rimane nella storia come la “rivolta delle pietre”, proprio perché la vendetta e la rabbia dei palestinesi li fece combattere con tutto ciò che avevano, cioè le pietre, che lanciavano contro i carri armati dei soldati israeliani.
La fine della prima Intifada produsse morti e massacri: l’esercito israeliano uccise circa 2.000 persone, ne ferì oltre 70.000, e più di 100.000 palestinesi furono condannati alla detenzione amministrativa, senza quindi un processo, prove o capi d’accusa.
Resistenza e repressione: la sollevazione palestinese
In arabo, “Intifada” significa “intervento”, ma nel corso degli anni, e nella declinazione storica dei moti di resistenza palestinesi, l’accezione con cui viene tradotta è appunto quella di “scuotimento”, “sollevazione” contro quelle forze occupanti israeliane.
Oltre alla prima intifada del 1987, la resistenza palestinese si esprimeva anche e principalmente attraverso mezzi non violenti, come lo sciopero fiscale e la chiusura delle attività commerciali. Le proteste furono spesso accompagnate da scontri diretti, in cui i giovani affrontavano l’esercito israeliano con pietre e altri mezzi rudimentali. La risposta israeliana fu severa: arresti di massa, demolizioni di case, pignoramenti e repressioni armate divennero pratica comune.
Il governo israeliano reagì anche chiudendo scuole e università, nel tentativo di soffocare il movimento. Parallelamente, finanziò l’apertura di moschee e madrase, alimentando la crescita di Hamas, un gruppo islamista di resistenza che in seguito sarebbe diventato una forza dominante nella Striscia di Gaza.
La prima risposta del Governo israeliano fu molto dura, ma nel corso degli anni si è, seppur di poco, ridimensionato, grazie all’intervento delle molteplici condanne dell’ONU – come quella votata nello stesso 1987 e nel 1988 – e l’insediamento di un nuovo ministro della Difesa, Moshe Arens, nel 1990.
La prima intifada palestinese portò con sé anche tutta quella rabbia e frustrazione di un popolo e uno Stato non riconosciuto, in quanto non ascoltato né difeso: anche nei Paesi arabi ormai i leader si erano allontanati dalla causa palestinese.
I costi umani della prima Intifada palestinese
La prima Intifada durò fino al 1993, portando alla morte di oltre 1.500 palestinesi e al ferimento di decine di migliaia di altri. Migliaia furono arrestati, molti dei quali senza accuse formali. Tra le vittime, numerosi erano minorenni, protagonisti involontari di una resistenza spesso segnata da sacrifici estremi.
La violenza non risparmiò neanche la popolazione israeliana, con attacchi e tensioni che alimentarono ulteriormente l’odio tra le due comunità. Nella prima intifada infatti ci fu uno dei primi attacchi kamikaze contro lo Stato di Israele: nel 1989, ci fu un attentato a Tel Aviv in cui persero la vita 16 persone.
Nonostante la repressione, la rivolta attirò l’attenzione internazionale, smuovendo la coscienza di movimenti pacifisti e di una parte della società israeliana contraria alla logica della guerra. Figure come le “Donne in nero” e i refusenik – militari che rifiutavano di servire nei territori occupati – rappresentarono una minoranza impegnata nel dialogo e nella ricerca della pace.
Conseguenze e memoria storica: capire il genocidio in corso
Storicamente, la fine della prima Intifada coincide con la stesura degli Accordi di Oslo nel 1993, che portarono alla creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese e a un fragile tentativo di pace. I colloqui tra Israele e l’OLP – l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il cui capo era Yasser Arafat – furono mediati dagli Stati Uniti.
Le cicatrici lasciate da quegli anni continuano a influenzare la regione. La generazione cresciuta durante la rivolta ha vissuto tra violenza, paura e umiliazioni, plasmando un clima di sfiducia e odio che perdura ancora oggi, mentre un genocidio si consuma davanti agli occhi di una comunità internazionale completamente ferma, se non complice.
Comprendere la prima Intifada è essenziale per decifrare le dinamiche attuali e storiche di quella che viene chiamata la questione israelo-palestinese. Dopo la prima e la seconda intifada, che causò quasi 5.000 morti, il sistema di occupazione, le violenze sistemiche e una narrazione storica di annullamento della terra di Palestina da parte dei media e governi israeliani non si sono più arrestate.
Ad oggi, ci troviamo al 428° giorno di genocidio palestinese da parte del colonialismo spietato di Israele, aiutato da armi e finanziamenti occidentali: bombardamenti, pulizie etniche e continue violenze caratterizzano la vita di chi vive nella Striscia o nella Cisgiordania occupata. Questo è un fallimento di tutte le organizzazioni internazionali, dei Tribunali internazionali, così come delle relazioni internazionali tra gli Stati.
Nonostante direttive, condanne e riconoscimenti di un genocidio in corso, centinaia sono le vittime o i feriti che ogni giorno le forze di occupazioni israeliane causano. Dall’ottobre 2023, il genocidio in Palestina ha causato quasi 45.000 morti con oltre 105.834 feriti.