Diaz, la scuola dell’odio e della tortura

È quasi mezzanotte, il summit del G8 si è finalmente concluso, con il tragico bilancio della morte di un ragazzo, Carlo Giuliani, e di centinaia di feriti tra manifestanti e agenti. 93 ragazzi alloggiano nella scuola Diaz, messa a disposizione dal comune di Genova per permettere loro di manifestare durante il giorno.

Alcuni stanno già dormendo, stremati dalla giornata, mentre altri si preparano per andare nei sacchi a pelo o rimangono ancora un po’ svegli per scrivere alla famiglia. Alcuni svolgono il loro ruolo nel servizio di sicurezza per accertarsi che i black bloc non entrino.

Tutto dovrebbe essere tranquillo, calmo, tutti sono lì con le stesse idee: dire in modo pacifico no agli eccessi della globalizzazione, avere una voce in capitolo in quel summit che può cambiare le sorti del mondo. Tutto dovrebbe essere tranquillo, eppure non è così.

Fuori dall’edificio alcuni agenti sono alle prese con il “terrorista facinoroso” Mark Covell, pericoloso giornalista disarmato e di minuta costituzione. Viene picchiato a sangue, colpito tanto violentemente con calci, pugni e manganellate da incurvargli tutta la parte sinistra della gabbia toracica, rompergli sei costole, le cui schegge gli lacerano la pleura del polmone sinistro, danneggiargli la spina dorsale, spaccargli una dozzina di denti e lasciarlo a terra svenuto, con il pensiero che non uscirà vivo da quella notte.

Questo è solo il tragico inizio degli scontri della scuola Diaz, presa da assalto dal VII nucleo antisommossa, dagli uomini delle Squadre mobili e delle Digos. Parlare di scontri è però inesatto, in quanto implica l’esistenza di due parti in lotta, mentre, come ha dichiarato Michelangelo Fournier durante il processo si è trattato di “colluttazioni unilaterali”, in cui i suoi colleghi pestavano e gli occupanti subivano: “una macelleria messicana”.

Ragazzi innocenti si sono svegliati nei sacchi a pelo sotto i colpi dei manganelli, hanno alzato le mani o si sono sdraiati per terra in segno di resa, ma a nulla è servito, nessuno si è salvato dal pestaggio: la loro colpa è di essere la valvola di sfogo dell’odio covato dai poliziotti durante le manifestazioni. Poliziotti che in quel momento da garanti della protezione che lo Stato dovrebbe garantire ad ogni cittadino si sono trasformati in carnefici, assetati di sangue e di violenza contro ragazzi indifesi di cui non approvano l’ideologia comunista, per usare un eufemismo.

Diaz
Fonte: www.internazionale.it

Più di 60 ragazzi rimangono feriti, molti gravemente e sono portati fuori con le ambulanze, che si susseguono ininterrottamente. Fin da subito appare evidente la gravità di quanto accaduto, eppure c’è chi cerca di sminuire o trovare una giustificazione: Roberto Sgalla, capo ufficio stampa, afferma che “si sono trovate all’interno della scuola due molotov, le divise nere e i segni distintivi dei black bloc, mentre i ragazzi hanno riportato ferite durante gli scontri del pomeriggio” e non nel massacro notturno. Come se Daniel Albrecht con un’emorragia cerebrale, Karl Boro con gravi lesioni alle braccia e alle gambe, una frattura cranica e un’emorragia toracica, Jaraslav Engel con la testa spaccata dai colpi e Lena Zuhlke con la gabbia toracica collassata potessero con tranquillità dirigersi dalle piazze della manifestazione fino alla scuola Diaz, senza bisogno di andare in ospedale.

È evidente la verità dei fatti, nonostante l’omertà e i tentativi di inquinare le indagini da parte degli agenti. Proprio per questo la Corte europea dei diritti umani ha condannato per ben due volte l’Italia, nel 2015 e quest’anno, per gli atti di tortura commessi dalle forze dell’ordine, per l’inadeguatezza delle leggi italiane per punire e prevenire gli atti di tortura da loro commessi. La Corte ha inoltre condannato l’Italia per non aver punito in modo adeguato i responsabili: il più grande motivo di vergogna per lo Stato. Nonostante la gravità dei fatti e le numerose testimonianze dei seviziati, nessuno è stato condannato per la violenza e l’assenza di umanità dimostrati nella notte tra il 20 e il 21 luglio 2001.

Degli 82 appartenenti alle forze dell’ordine finiti sotto processo, soltanto 16 sono stati riconosciuti colpevoli e non con l’accusa che ci si aspetterebbe: le condanne sono per il reato di falso aggravato, in relazione ai verbali di perquisizione e arresto a carico dei manifestanti, rivelatisi pieni di accuse infondate, tra cui la presenza delle molotov, in realtà introdotte da alcuni agenti di polizia. La pena inflitta è l’interdizione dai pubblici uffici dai 2 ai 14 anni, per la gran parte per 3 anni e 8 mesi. Le accuse per maltrattamenti invece sono svanite nel nulla, cadute in prescrizione dopo 11 anni, a causa della lentezza della “giustizia” italiana.

Lo scandalo sembra però non avere fine: tra pochi giorni molti dei 16 agenti potranno tornare a lavoro, in quanto l’interdizione scadrà tra poco, ed è concreta, per loro, la possibilità di tornare in caserma. Alcuni degli agenti condannati sono già in età pensionabile; tra i reintegrabili ci sono l’ex capo della Sco Gilberto Caldarozzi, l’ex dirigente della Digos genovese Spartaco Mortola e il funzionario di polizia Pietro Troiani. Massimo Nucera, il poliziotto che ha raccontato di aver ricevuto una coltellata, è già stato reintegrato.

Sembra fuori luogo tutta questa bonarietà nei loro confronti, soprattutto ricordandosi che il capo della polizia Alessandro Pansa nell’aprile del 2015 ha sospeso dal servizio l’assistente capo Tortosa per avere scritto su Facebook il post “Io sono uno degli 80 del VII nucleo. Io ero quella notte alla Diaz. Io ci rientrerei mille e mille volte e il dirigente del Reparto Mobile di Cagliari Antonio Adornato per aver messo un like. Giustizia è fatta solo per condannare un’opinione, se pur deplorevole, espressa pubblicamente e non per i massacri effettivamente perpetuati. In realtà neppure questa giustizia si è realizzata, in quanto dopo sette mesi di sospensione con stipendio dimezzato, per l’agente Tortosa, che rischiava il licenziamento, il Consiglio Provinciale di Disciplina ha deciso la semplice deplorazione 

Forse c’è un’amnesia generale sui maltrattamenti della Diaz, ma purtroppo non solo tra chi ha svolto le indagini: nessuno si è preso la responsabilità politica di quanto accaduto e ancora gode di fiducia chi, in conferenza stampa di fronte ai primi timori, aveva promesso di assumersela personalmente, ossia Silvio Berlusconi.

Camilla Gaggero

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