Diane Downs, la madre che ha sparato ai suoi tre figli

Diane Downs Clara Campi www.ultimavoce.it

Clara Campi

Di Clara Campi


Springfield, Oregon, 1983.

In una tranquilla notte di maggio, un’automobile accosta all’ingresso del pronto soccorso.

Alla guida, una donna disperata: i suoi tre figli sono in macchina, in un bagno di sangue, e lei stessa è ferita al braccio sinistro.

Racconta di come uno sconosciuto dai capelli arruffati abbia cercato di rubarle la macchina e, al suo rifiuto di dargli le chiavi, abbia commesso la strage.

I medici riescono a salvare la figlia maggiore, Christie, 8 anni, e il piccolo Danny, 3 anni, che restano però in condizioni critiche, mentre non c’è nulla da fare per Cheryl, 7 anni.

La polizia interroga la madre, Diane Downs, e inizia la caccia all’uomo, mentre in Oregon si diffonde la paura.

Nel giro di pochi giorni la polizia ha un’unica sospettata: la stessa Diane.

Elizabeth Diane Friedrickson nasce nel 1955 in Arizona, da una famiglia molto rigida e religiosa.

Adolescente ribelle e “promiscua”, così la definiscono i genitori, a soli 18 anni scappa di casa e sposa Steven Downs, con cui avrà due figlie, Christie e Cheryl.

Mentre aspetta ognuna delle due bambine, Diane scopre di amare molto il periodo della gravidanza e vorrebbe continuare ad avere figli, ma il marito non è d’accordo.

“Questi uomini vogliono controllare il corpo delle donne, ma non glielo permetteremo!” – dichiara anni dopo in un’intervista – “Io volevo un altro figlio, e allora… L’ho fatto da sola. Conosco bene il mio ciclo mestruale e avevo trovato un candidato ideale”.

E così nasce Danny, che Steven decide di riconoscere anche se poco dopo chiederà il divorzio.

Nuovamente single, Diane decide di sfruttare la facilità con cui riesce a restare incinta cercando di farsi assumere da diverse cliniche come “utero in affitto” (nonostante, ai tempi, non si trattasse della GPA che intendiamo oggi, ma di una vera e propria inseminazione artificiale).

Fallisce i test di idoneità cui si sottopone ma, dopo mesi, riesce ad essere accettata in un programma e partorisce una bambina nell’82, ricevendo 10.000 dollari di compenso.

Cerca allora di aprire una clinica lei stessa, ma l’operazione fallisce in breve tempo e inizia a lavorare come postina, seguendo le orme del padre.

Intrattiene numerose relazioni occasionali con i colleghi, tutti sposati, finché perde la testa per Robert Knickerbocker, detto Nick, appena separato dalla moglie.

Per Diane è amore a prima vista, al punto di tatuarsi il suo nome, mentre Nick non sperava in una reazione seria, ma non riesce ad interrompere la relazione, soggiogato dal fascino della lussuriosa postina, almeno finché non realizza che l’ossessione che Diane nutre per lui non è sana.

A quel punto, medita di ricongiungersi con la moglie e cerca di far capire a Diane di non essere fatti l’una per l’altro, trovando ad un certo punto quella che lui ritiene essere la scusa perfetta: “Io non ho mai voluto avere figli e non potrei mai essere un padre per i tuoi”.

A quel punto, Diane chiede un trasferimento in Oregon e lascia l’Arizona con i tre figli, forse sperando che Nick senta la sua mancanza e la segua. Cosa che non accadrà.

Dopo la tragedia del 19 maggio 1983, Diane inizia a rilasciare interviste e a partecipare a diversi programmi televisivi, tra cui anche una ricostruzione della sparatoria, richiesta dalla polizia ma mandata in onda in diretta.

Durante la ricostruzione, Diane sorride, ride, sembra divertirsi.

Ad un certo punto sbatte il braccio ingessato sulla portiera ed esclama:

“Mi sono fatta più male adesso di quando…” e si interrompre.

Molti ritengono che stesse per dire “Mi sono fatta più male adesso di quando mi sono sparata al braccio”.

L’opinione pubblica, inizialmente solidale con questa povera mamma aggredita, inizia a cambiare: ormai Diane non è più la principale indiziata soltanto per la polizia.

Dopo poco, le viene impedito di visitare in ospedale i due figli superstiti perché quando entrava nella camera di Christie, che aveva avuto un ictus ed era ancora parzialmente paralizzata e non in grado di parlare, le pulsazioni della bambina aumentavano a dismisura.

Le indagini procedono e la polizia ha sempre più prove: tracce di sangue sulla macchina che smentiscono la ricostruzione di Diane, la scoperta in casa sua di cartucce compatibili con l’arma usata per la strage, la testimonianza di un guidatore che ricorda di aver superato l’auto di Diane perché “procedeva a passo d’uomo” mentre lei sosteneva di aver guidato ben oltre il limite per raggiungere più in fretta l’ospedale.

Tuttavia, rimandano l’arresto nella speranza che Christie riprenda a parlare per fornire una testimonianza schiacciante al processo.

Nel frattempo, Diane continua con le apparizioni televisive, dichiarando al paese: “If I shot my kids, woudn’t have I done a god job at it?”, cioè “Se io avessi sparato ai miei figli, non avrei fatto in modo che morissero tutti?”

Mentre Christie, che si sta riprendendo, è seguita da una psicologa che cerca di farla ricominciare a parlare, Diane inizia a cambiare versione dei fatti: non è stato uno sconosciuto con i capelli arruffati. Erano due sconosciuti mascherati, che però la conoscevano. Ripensandoci, li conosceva anche lei. Ma non può fare i nomi, sostiene.

Poi decide che, alla fine, era stato lo sconosciuto dai capelli arruffati, forse i tizi mascherati li aveva sognati.

La psicologa di Christie, intanto, decide di far scrivere alla bambina il nome del colpevole su un pezzo di carta da mettere in una busta. Poi le dice che può consegnarle la busta o buttarla nel fuoco.

Christie butterà dozzine di buste nel fuoco finché un giorno si ferma davanti al camino e torna dalla psicologa, che apre la busta. Scritta sul foglio, una sola parola: Mamma.

Maggio, 1984: inizia il processo contro Diane Downs.

Davanti alla folla di giornalisti, Diane si presenta con un pancione prominente: “Non si possono sostituire i bambini, ma si può sostituire l’amore che ti danno. E, poi, fare bambini è talmente facile”, dichiarerà alla stampa.

Al processo è presente anche Nick, il grande amore di Diane, che testimonia contro di lei.

In tribunale viene riprodotta “Hungry like the wolf” dei Duran Duran, la canzone che proveniva dallo stereo dell’automobile durante la sparatoria.

Diane segue il ritmo con il piede e annuisce a tempo di musica.

Nonostante lo stato interessante e i tentativi di accattivarsi la giuria, in seguito alla straziante testimonianza di Christie, non ancora decenne, Downs viene condannata a life in prison plus 50 years, in sostanza ergastolo più 50 anni, ma con la possibilità di richiedere un’udienza sulla parola dopo 25 anni.

Dopo un mese, partorisce una bambina che verrà immediatamente messa in adozione.

Christie e Danny, invece, vengono adottati da Fred Hugi, il procuratore distrettuale che ha seguito il caso.

Ma la storia non finisce qui.

Nel 1987 Diane riesce ad evadere di prigione e si rifugia in casa dell’ex compagno di un’altra detenuta, dove resterà per dieci giorni, fino alla ricattura.

Nel 2008 ottiene la sua prima udienza sulla parola, continuando a dichiararsi innocente. Non le viene concessa la libertà vigilata ma ottiene una seconda udienza nel 2010, con gli stessi risultati.

La sua terza udienza avrebbe dovuto tenersi nel 2020 ma è stata rimandata per la pandemia.

Recentemente, Diane ha cercato di informare la stampa delle terribili condizioni igieniche del carcere californiano dove è attualmente detenuta, sostenendo di aver contratto il covid, che sta facendo una strage tra le detenute. Il dipartimento correzionale della California, però, sostiene che in quel carcere non ci siano casi e che Downs stessa è risultata negativa al test.

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