Alba Chiarlone è psicologa, psicoterapeuta e dirigente psicologico dell’hospice di Siracusa. Da anni si occupa di cura in ambito oncologico.
Nonostante la prevenzione, la ricerca e la cura abbiano fatto passi in avanti, di cancro ancora si muore. I tumori sono la seconda causa di morte in Italia. Anche se la mortalità diminuisce, le diagnosi di cancro sono in aumento. Il cancro è una malattia che fa paura, tanto che viene chiamato il BRUTTO MALE, come se si avesse il timore di nominarlo. Invece parlando con Alba Chiarlone, ancora una volta emerge quanto le parole siano importanti. Alba cita ad esempio due diverse tipologie di narrazione della malattia : la guerra ed il viaggio.
La narrazione più diffusa è quella che parla di lotta al cancro. Si utilizza la metafora della guerra, parole come battaglia, vittoria, sconfiggere…Sono per lo più le persone che non stanno vivendo il cancro sulla loro pelle che prediligono questo tipo di linguaggio. Nei miei anni di contatto con i pazienti, da loro ho imparato che si possono usare parole più positive. È chi riesce a vedere la malattia come un viaggio, come un percorso: anche chi è vicino al malato può usare queste metafore, da cui si innesca un atteggiamento più positivo nella cura.
Ho incontrato Alba Chiarlone durante la mia formazione come volontaria Avo. Sto muovendo i primi passi come volontaria, è sfidante, emozionante, è la mia clinica di bellezza e pace interiore. Quello che ho trovato nel mio percorso da volontaria è il privilegio di incontrare persone che stanno cercando i motivi più profondi e veri del nostro essere al mondo.
Credo che un grande potere di Alba, oltre all’esperienza ventennale nell’ambito della cura oncologica, sia il fatto che nel 2021 ha ricevuto una diagnosi di cancro al seno. Alba ha vissuto l’esperienza del cancro prima come curante e poi come paziente. Le chiedo se averlo vissuto sulla sua pelle l’abbia cambiata come terapeuta
Susan Sontag diceva che i pazienti abitano un altro mondo. Un mondo dove ci sono regole e linguaggi diversi. Io sono una che sta in una città, ma che ha vissuto parecchio anche nell’altra. Quindi so che cosa vuol dire attraversare quelle strade, entrare da quelle porte.
Prima della malattia, quando una paziente mi riferiva una sofferenza, per esempio l’effetto di un medicinale, capivo che questa persona aveva dolore e che cosa significava, adesso lo so. Lo so nel corpo perché mi è successa la stessa cosa. Ma non glielo dico, non è importante che lei lo sappia, è importante che io col corpo so che cosa vuol dire. C‘è una risonanza diversa nel corpo, per cui quando un paziente si racconta, ci sono passata anch’io e l’altra persona in qualche maniera lo percepisce.
Dal trauma alla crisi
La diagnosi di cancro è un trauma.
Come un fotogramma bloccato di un film. Il trauma è quando una persona non riesce ad andare avanti nella propria vita, è come se fosse inchiodato lì, bloccato. Vive sempre quel momento in cui la sua vita è cambiata.
Alba, citando Byron Good, mi spiega come la diagnosi di cancro crei una frattura autobiografica: c’è un prima e un dopo. Devo rinegoziare valori, progetti, prospettive.
Ci si sente traditi dal proprio corpo. Non ci ha dato segnali, dicono in tanti. Succede un terremoto.
Ma si può andare avanti, se si accetta il cambiamento che questo comporta. Resta un trauma se tu resti inchiodato in quel momento lì, bisogna accettare il cambiamento.
Accettare il cambiamento
La differenza, secondo me, di fondo, è la solitudine. Aldilà di avere o non avere una famiglia. C’è una parte della vita e della malattia che vivrai comunque da solo. Ma un’altra parte che, se vivi da solo diventa un trauma. Se invece tu riesci ad avere dei compagni di viaggio in questo percorso, allora può essere una crisi, cioè un’occasione di cambiamento. Non sto facendo l’elogio della malattia, il punto è cosa te ne fai. E’ capitato, nessuno è contento. Ma è capitato, cosa te ne fai?
Allora, la malattia oncologica non è necessariamente un trauma. Il lavoro di Alba, nella riabilitazione psicologica è quello di trasformare il trauma in una crisi. Crisi significa pericolo, rischio, ma anche opportunità: un’opportunità di cambiamento, di ripensare la tua vita in cui sicuramente ci sarà sempre un prima e un dopo.
Qual è il compito principale di chi sta vicino a chi riceve una diagnosi di cancro
Il compito per assistere un paziente oncologico è aiutare a creare un ponte e a reincollare i frammenti.
Da soli non ci si riesce, serve un lavoro corale.
Elisabeth Kübler Ross, psichiatra svizzera, elaborò un modello di cinque fasi che si avvicendano nella mente di chi ha ricevuto una diagnosi di malattia terminale. Queste fasi possono anche alternarsi, ripetersi o susseguirsi senza un ordine preciso
- Fase della negazione: non è vero, ha sbagliato il medico, è una fase in cui emotivamente non si sente niente
- Fase della rabbia: perché a me?
- Fase del patteggiamento: cosa posso o non posso fare
- Fase dell’accettazione: la persona è consapevole della propria condizione e può scoprire un nuovo significato più profondo
Il percorso descritto da Kübler Ross è un percorso ideale, non avviene sempre per tutti. Affinché il paziente arrivi all’accettazione della diagnosi di cancro un aspetto decisivo è che diventi soggetto attivo del processo.
Sembra una banalità, ma in realtà nella pratica clinica è difficilissimo da portare avanti, aprire un dialogo per cui il paziente diventa parte attiva del proprio processo di cura, sa che cosa succederà, conosce la terapia e quali possono essere gli effetti collaterali e soprattutto sa che può essere ascoltato.
Inevitabilmente, a seguito di una diagnosi di cancro, si passa per la depressione, ma non è da curare dal punto di vista psicoterapeutico, semmai da accompagnare, da dargli un senso. È un momento in cui tu senti, percepisci la tua fragilità, la tua mortalità. Anche se andrà tutto benissimo. In questa fase la depressione è assolutamente coerente con quello che stai vivendo.
Anche la guarigione può essere una fase molto critica, in cui il paziente rielabora cosa gli è successo. È in questa fase che Alba Chiarlone spesso attiva il laboratorio di scrittura che aiuta i pazienti a ritrovare un significato più profondo nel percorso da loro vissuto.
La tua vita, comunque è cambiata. Psichica e fisica. Ti devi adattare a cose nuove. E questo comunque ha in sé la sensazione che hai perso dei pezzi di te. Se non altro l’illusione di essere immortale. Teoricamente lo sappiamo tutti, ma un conto è viverlo sulla propria pelle.
Anche nelle cure palliative si può vivere una rinascita e questa si esprime attraverso il lascito, in cui il paziente lascia ai suoi cari il significato più profondo della vita che ha vissuto.
La gente identifica le cure palliative come morte. In realtà è un fine vita. Che è una cosa profondamente diversa. Il paziente si sente cambiato e si ritrova ad affrontare con un nuovo sé, una nuova consapevolezza, il percorso di vita che ha davanti. E può essere un momento molto vitale.
Cura è ascolto
Alba mi spiega che nella radice della parola cura, dal latino CUR, c’è il significato PERCHÈ, quindi la cura è l’atto di farsi delle domande
Ci sono dei protocolli che insegnano a noi medici a come dire le cose, ma quello che dovremmo imparare a fare tutti quanti è ascoltare. Perché a volte il paziente dice una cosa, ma fa quella smorfia, fa quel movimento che dice altro.
E se non sappiamo cosa rispondere davanti alle sofferenze o alle paure che un paziente ci racconta perché non le abbiamo sperimentate? Possiamo tacere. Dobbiamo toglierci questa idea di dover avere la risposta giusta a tutti i costi. E’ il sentirsi ascoltati quello che sostiene. È il senso di comunità.