Chi pensava che la nostra galleria di confronti letterario-musicali a sfondo dark sarebbe finita si sbagliava di grosso. Dopo un’escursione nel repertorio di Siouxsie and the Banshees, torniamo a The Cure. Essi hanno un debito non solo con Albert Camus, ma anche con Franz Kafka (Praga 1883 – Kierling, Vienna, 1924).
“…il brano At Night, contenuto nel loro secondo disco Seventeen Seconds, non è che una trasposizione, talvolta con parole identiche, di un racconto brevissimo scritto dall’autore praghese nel 1920, Di notte.” (Simone Tosoni – Emanuela Zuccalà, Creature simili. Il dark a Milano negli anni Ottanta, Milano 2013, Agenzia X, pag. 136).
Il racconto kafkiano in oggetto è tanto breve che vale la pena di trascriverlo interamente:
“Sprofondato nella notte. Essere sprofondato nella notte come talvolta si abbassa la testa per riflettere. Gli uomini intorno dormono. Una piccola commedia, una innocente illusione che dormano nelle case, nei letti solidi, sotto un tetto solido, stesi o rannicchiati su materassi entro lenzuola, sotto coperte; in realtà si sono trovati insieme, come a suo tempo e come più tardi in una regione deserta, accampati all’aperto, un numero incalcolabile d’uomini un esercito, un popolo sulla terra fredda, sotto un cielo freddo, coricati dove prima erano in piedi, la fronte contro il braccio, il viso contro il suolo, col respiro calmo.
E tu sei sveglio, sei uno dei custodi, trovi il prossimo agitando il legno acceso nel mucchio di stipe accanto a te. Perché vegli? Uno deve vegliare, dicono. Uno deve essere presente. (Da Singerella’s Blog. Trad. it. di E. Pocar)”
La notte sottolinea dunque lo stato di alienazione dell’anonimo protagonista. Il fatto di non poter dormire come tutti gli altri lo rende un “diverso”; lo porta ad accostare l’umanità a un esercito compatto, contrapposto alla sua solitudine. Il fatto è che neppure lui sa il perché di questa sua “diversità”. Essa esiste e basta. Eppure, è necessaria. È necessaria (forse) quanto l’esistenza stessa di scrittori e pensatori, che vegliano riflettendo su questioni ignorate da buona parte dell’umanità.
Contrariamente alle trasposizioni de L’étranger e The Premature Burial, che richiedevano selezione e sintesi, si può dire che The Cure abbiano mantenuto o addirittura integrato il testo di partenza. La canzone è più ricca di sensazioni ed emozioni. Il protagonista descrive in prima persona il freddo sulla faccia e il proprio stare in piedi solo, sotto il cielo, mentre sente passare le ore. La contrapposizione non è più fra lui e una generica umanità, ma coinvolge una specifica persona, con cui si suppone un rapporto confidenziale. È quest’ultima a dormire sicura,
“Unaware of the changes at night.” (“Inconsapevole dei mutamenti della notte.”)
Quali mutamenti? Kafka non li menzionava e The Cure non li specificano. Si limitano a suggerire che la vita notturna sia tutt’altro che assonnata e immobile. Il protagonista, dunque, non veglia per nulla, ma per percepire questi cambiamenti. Cambiamenti che portano forse pericoli. Il suo ruolo di sentinella è sottolineato. E cosa sente?
“I hear the darkness breathe
I sense the quiet despair
Listen to the silence…”
(“Sento l’oscurità respirare,
Percepisco la quieta disperazione
Ascoltare il silenzio…”)
Ecco perché qualcuno deve restare sveglio: per rendersi conto che la notte, lungi dall’oscurare, porta invece alla luce ciò che rimane nascosto durante il giorno. Porta alla luce il male di vivere.
Erica Gazzoldi