In un recentissimo report, Human Rights Watch denuncia la detenzione illegale di circa 12.000 migranti, di cui 1.400 bambini, da parte del governo malese. Le condizioni dei centri espongono gli internati al rischio di subire abusi fisici e danni psicologici di entità pari alla tortura.
Il sistema legale della Malesia
La Malesia è uno dei pochi paesi nel mondo a basare la gestione dei flussi migratori in ingresso su un documento legislativo, cioè l’Immigration Act 1959/63, che non prevede differenze di trattamento fra adulti e minori, né tantomeno fra richiedenti asilo, rifugiati, vittime di traffico e migranti privi di documenti. In parole semplici, chiunque valichi i confini malesi senza essere in possesso di un permesso di ingresso valido è considerato un PATI (pendatang asing tanpa izin): un migrante “illegale” soggetto ad arresto, detenzione e deportazione.
L’ingresso irregolare nel paese è punito dalle autorità malesi con multe salatissime, che possono arrivare fino all’equivalente di 2.100 dollari, pene detentive per un massimo di 5 anni di galera, nonché fino a 5 colpi inferti con una canna. Nel caso in cui una persona venga trovata sul territorio sprovvista di documenti, invece, non esiste un limite al periodo di detenzione a cui può essere sottoposta in vista dell’organizzazione del suo rimpatrio.
Queste disposizioni sono attuate dalla polizia e dagli uffici per l’immigrazione grazie agli ampissimi poteri che sono garantiti loro dalla legge dello Stato. Le autorità hanno infatti il diritto, secondo la legge malese, di perquisire, interrogare ed arrestare senza il bisogno di un mandato chiunque sia sospettato di aver violato l’Immigration Act.
Un sistema così arbitrario e cieco di fronte alla complessità del fenomeno migratorio lascia ampio margine per l’adozione di politiche e pratiche xenofobe che, non a caso, sono in aumento nel paese. Questo espone i profughi a situazioni di abuso estremamente gravi, che si consumano in primo luogo all’interno dei centri di detenzione.
“We Can’t See the Sun”: l’orrore dei centri di detenzione
Il 5 marzo l’organizzazione internazionale Human Rights Watch ha pubblicato un report dal titolo eloquente: “ ‘We Can’ See the Sun’: Malaysia’s Arbitraty Detention of Migrants and Refugees”. Il documento di 60 pagine è una testimonianza inequivocabile del trattamento inumano riservato ai migranti e ai rifugiati da parte delle autorità malesi all’interno dei centri di detenzione presenti sul territorio, che vengono definiti come squallidi, sovraffollati e amministrati con l’uso della violenza.
Gli immigrati che hanno passato mesi o anni all’interno di queste strutture raccontano delle condizioni igienico-sanitarie inumane, della mancanza di assistenza medica, ma soprattutto dei quotidiani abusi fisici e mentali: isolamento forzato, privazione di cibo, percosse con tubi di gomma o bastoni. Dietro le porte di queste strutture detentive si stanno consumando vere e proprie torture che, spesse volte, causano la morte di persone innocenti.
Coloro i quali sono rinchiusi nei centri non hanno accesso ad alcun tipo di ricorso giudiziario che possa offrire loro una via di uscita facendo valere i diritti di cui sono titolari in quanto esseri umani. Ad oggi, contro ogni norma di diritto internazionale e umanità, risultano detenute in maniera arbitraria circa 12.000 persone, di cui 1.400 bambini.
La voce della comunità internazionale: alternative alla detenzione illegale
Le sistematiche violazioni di diritti umani che osserviamo in Malesia non sono distanti da quelle documentante in altri paesi, come quelle che si consumano nei centri di detenzione della Libia. Ma anche se questa realtà potrebbe essere meno conosciuta dal pubblico occidentale rispetto ad altre, la situazione non è sfuggita all’occhio della comunità internazionale.
Un gruppo di esperti indipendenti sulla detenzione arbitraria, facente capo al Consiglio sui diritti umani ONU, ha fermamente condannato le pratiche in uso in Malesia affermando che “i migranti non devono essere qualificati o trattati come criminali”. Secondo gli esperti ONU, la detenzione dovrebbe essere una misura eccezionale, l’ultima istanza, non la norma e non dovrebbe mai danneggiare i diretti interessati.
Anche Human Rights Watch sollecita il governo malese e richiede lo stop immediato alla detenzione di rifugiati, bambini, vittime di tratta e altre categorie di persone particolarmente vulnerabili. La proposta portata avanti dall’organizzazione internazionale è quella di sostituire questa forma di detenzione con delle alternative di controllo della libertà di movimento che mettano al primo posto le necessità e la dignità umana dei migranti, in particolare dei bambini. Soluzioni che siano rispettose dei diritti della persona potrebbero essere quelle basate sulla vita nelle comunità locali, come già sperimentato con successo in diversi paesi.
Cambiamenti di questo genere dipendono da processi che spesse volte si giocano sul lungo periodo e che chiamano in causa compromessi fra una moltitudine di attori nell’arena politica. Per quanto esecrabili possano essere, le politiche di gestione dei flussi migratori rimangono infatti, in larga misura, appannaggio dell’autorità statale e le possibilità di intervento da parte della comunità internazionale sono sempre limitate dai precisi confini tracciati dall’entità sovrana. Ma di fronte a violazioni massicce del diritto internazionale e dei diritti fondamentali della persona come quello alla vita, è imperativo chiedersi: quanto possiamo aspettare?