Ogni paese ha, o ha avuto, un mito delle origini, un valore ancestrale che ne accomuna la popolazione e ne indica la traiettoria storica. Per gli Stati Uniti si tratta del destino manifesto, un concetto che li accompagna dal XVII secolo e che li vuole prescelti per la guida dei popoli. Oggi l’idea vive una grande crisi, riflesso delle fratture che dividono la società.
L’origine del destino manifesto
Nel 1630 John Winthrop, rappresentante della piccola nobiltà inglese, salpò alla volta del Massachussets per sfuggire alle politiche anti-puritane di re Carlo I. Durante la traversata dell’atlantico scrive A model of Christian Charity. Il testo è rivolto ai coloni che si accingeva a raggiungere, scritto per esortarli a vivere secondo la regola puritana di cui era rappresentante. A model of Christian Charity è considerato oggi una delle fondamenta dell’identità americana per via di un passaggio in particolare, la descrizione di una nuova comunità guidata e retta dalla volontà divina: the city upon a hill, la città sopra la collina.
Per quanto ci riguarda dobbiamo considerarci come fossimo in una città sopra una collina. Gli occhi della gente sono puntati su di noi. Cosicché, se ci rapporteremo in maniera genuina col nostro Dio in questo compito in cui ci siamo impegnati […] saremo una storia e un esempio perfetto per tutto il mondo
Il XVII secolo rappresentò per i coloni puritani il dipanarsi di un disegno divino atto a ricostruire da zero le società ormai disgregate e corrotte del vecchio continente nel giardino finalmente raggiunto dai più fedeli tra i seguaci di Dio. La nuova cultura costruita attorno al mito della Missione divina accompagnò, plasmandola, la mentalità americana fino alla guerra di indipendenza iniziata nel 1775. All’alba della rivoluzione l’idea di un’immagine di virtù passivamente offerta al prossimo attraverso l’esempio cede il passo ad un maggiore attivismo, sempre benedetto dalla volontà divina, uno spirito crociato che lega il dovere civico con quello ecumenico.
È in nostro potere di ricominciare il mondo da capo. Una situazione simile alla presente non accadeva dai giorni di Noè. Il giorno della nascita di un nuovo mondo è a portata di mano…
Con queste parole Thomas Paine, uno dei padri fondatori, nel 1776 definiva la portata della Missione che la federazione avrebbe dovuto perseguire nei secoli. Negli anni che seguirono l’indipendenza la Missione americana assunse caratteri diversi atti a giustificare l’espansionismo delle 13 ex colonie ad occidente del continente. Si sostituì, in parte, la matrice religiosa della Missione con il più moderno messaggio della libertà democratica. Tuttavia non si perse il carattere del mandato divino, necessario ad inserire la neonata repubblica in una narrazione di eccezionalità rispetto a qualsiasi altro Paese del mondo.
Il destino manifesto in America
È nell’ambito di questa eccezionalità che il termine destino manifesto nacque. L’anno è il 1845, l’opinione pubblica sta discutendo sulla potenziale annessione della repubblica del Texas alla federazione e sulla questione dell’Oregon, un territorio ancora disabitato (le numerose popolazioni native che lo vivevano non erano ovviamente tenute in considerazione) e disputato con il Regno Unito. John L. O’ Sullivan, facoltoso sostenitore del partito democratico, si inserisce nel dibattito con un articolo sul New York Morning News che segnerà profondamente il paese nei secoli a venire.
E tale rivendicazione è per diritto del nostro destino manifesto di diffonderci e possedere l’intero continente, che la Provvidenza ci ha dato per lo sviluppo di un grande esperimento di libertà e di autogoverno federato, che ci è stato affidato.
Finalmente si confermava con un nome specifico e ripetibile il processo che per più di due secoli aveva convinto la nazione americana di ricoprire un ruolo unico e primario nella storia umana. In un certo senso si battezzava la Missione, e la si preparava a camminare sul mondo. Quando venne coniato, infatti, il concetto di destino manifesto indicava la supremazia morale (e politica) degli Stati Uniti semplicemente sulle Americhe, come definito dalla dottrina Monroe del 1823. Tuttavia con l’inizio del secolo successivo la Missione di guida della città sulla collina cambia nuovamente veste e dal contesto continentale si proietta in quello globale.
Il destino manifesto nel mondo
Nel 1917 il presidente Wilson guida il Paese nella carneficina della prima guerra mondiale. Per la prima volta nella storia un corpo di spedizione americano mette piede in Europa. Due anni dopo la vittoria, di fronte al congresso, Wilson pronuncia un discorso che definirà il ruolo di guida globale che il paese si candida ad assumere.
Penso che tutti noi realizziamo che è giunto il giorno in cui la democrazia viene messa alla prova finale. Il Vecchio Mondo sta ora soffrendo un eccessivo rigetto del principio di democrazia e una sostituzione del principio di autocrazia asserito nel nome, ma senza l’autorità e la sanzione, delle moltitudini. Questo è il momento fra tutti in cui la democrazia deve dimostrare la sua purezza e il suo potere spirituale di prevalere. È sicuramente destino manifesto degli Stati Uniti di guidare il tentativo di far prevalere questo spirito.
Dopo la vittoria della seconda guerra mondiale il Paese avvia una lunga stagione di sviluppo della propria influenza sul mondo. Viene messo da parte il termine destino manifesto, sostituito dal meno anacronistico “guida del mondo libero”. La manifestazione del ruolo prende il posto della natura della Missione, ennesimo cambio di veste che non incide sul valore dell’eccezionalità ancora percepita nel Paese. E non è quindi un caso se ancora negli anni ’80 inoltrati, a poco più di un decennio dall’inizio del terzo millennio, l’amministrazione Reagan parli di una potenza straniera come di un impero del male, tornando ad adottare una dialettica religiosa che investe gli states della carica di soggetto unto dal Signore per portare la luce sul mondo.
Il destino manifesto nel 21esimo secolo
Gli anni ’90 sembrano confermare la visione del presidente Reagan. Crollata l’Unione Sovietica, senza più alcun contradditorio, Washington può finalmente completare la grande missione. All’inizio del 21esimo secolo, tuttavia, la tragedia dell’11 settembre spazza via le speranze della Pax Americana. La democratizzazione delle nazioni si impantana nel mattatoio afghano, si scontra con l’antropologia atomizzata di un mondo in cui le popolazioni che rifiutano il sistema liberal-democratico di stampo occidentale superano quelle che lo abbracciano.
Gli ultimi vent’anni segnano la lenta fine del vettore che aveva portato il Nord America da agglomerato di colonie ribelli a egemone continentale e quindi a poliziotto del mondo. I tanti fronti aperti, le tante crisi globali, hanno fiaccato la società americana. La fazione degli isolazionisti, di coloro che vorrebbero tornare in cima alla collina e non scendere più nella valle del mondo, cresce e si fa rumorosa. E spezza in due la nazione.
Trump, simbolo della crisi
Il malessere provocato dalla fatica di essere ovunque e sempre ha portato nel 2016 Trump alla Casa Bianca. La campagna elettorale di quello che è stato il presidente più divisivo della storia degli Stati Uniti ha martellato i temi del ritiro dal mondo: il taglio dei fondi americani alla NATO (arrivando addirittura a minacciarne l’uscita del Paese), la distensione (più simile ad un sostanziale laissez-faire) nei confronti di regimi brutali come quello nord coreano, l’abbattimento delle tasse per le grandi aziende americane che ricollochino le proprie industrie sul territorio nazionale (cosa che ha aiutato molto il mercato del lavoro interno a costo di una forte perdita di influenza all’estero).
Proposte rivolte ad orecchie interessate alla ricerca del benessere (purtroppo accompagnate anche ad una brutale miopia, se non addirittura colpevolezza, nei confronti della questione razziale e dei diritti, che difficilmente farà di Trump un personaggio positivo nei futuri libri di storia) piuttosto che al ruolo di guida del mondo.
Molte delle promesse della campagna elettorale non hanno poi trovato compimento durante la presidenza, o sono state molto annacquate, soprattutto per l’opposizione degli apparati burocratici che sostengono lo stato. Tuttavia il fatto che il portavoce di tale dottrina del disimpegno globale abbia potuto raggiungere lo studio ovale (pur senza vincere il voto popolare) è sintomatico dell’incertezza del Paese riguardo alla propria attuale identità.
Oggi
Il fronte interno negli Stati Uniti è oggi più che mai sfaldato. La presidenza Trump ha portato alla luce e acuito delle fratture che per decenni covavano sotto la pelle della guida del mondo libero. L’amministrazione Biden, dal canto suo, fa fatica a tenere sotto controllo un processo che sembra destinato a crescere. Le incomprensioni tra stati costieri e continentali, tra le città e le periferie, tra i vari gruppi etnici, rischiano di paralizzare la proiezione del Paese sul mondo. Incapace di decidere quale messaggio adottare e dove rivolgere il proprio essere, l’America sembra oggi attendere dall’esterno un grande evento rivelatore che scelga per lei l’identità da assumere.
Oggi il Paese guarda i prossimi vent’anni riflettersi sulle coste di Taiwan, sulla nuova via della seta, nel Donbass, tra le onde del Baltico e dello stretto di Hormuz. Li guardano cercando di capire se il destino manifesto si è compiuto ed ora è il momento che qualcun altro ne raccolga la Missione. Oppure se questa è solo una delle (tante) volte in cui l’eccezionalità che li ha caratterizzati deve cambiarsi d’abito e trovare un nuovo modo per giustificarsi di fronte al proprio secolo. Nel frattempo il mondo sgomita, sempre più forte, per capire fino a dove ci si può spingere prima di raggiungere il punto di rottura. Il punto che metta il Paese, tutto il Paese, di fronte all’inderogabile necessità di scegliere se abbracciare ancora una volta la Missione o se ripudiarla per sempre.