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Ieri, all’età di 90 anni, è venuto a mancare Desmond Tutu, arcivescovo sudafricano noto come attivista di fama mondiale e oppositore al regime dell’apartheid. Primo arcivescovo nero di Città del Capo e premio Nobel per la pace nel 1984, è il padre del concetto di “Rainbow nation”, l’ideale della convivenza pacifica tra le diverse etnie che componevano e compongono il Sudafrica, poi ripreso anche da Nelson Mandela. L’altra parola chiave dell’agire di Tutu è stata sicuramente ubuntu, il termine sudafricano che parla di una società senza divisioni.
Oltre al suo impegno per la ricostruzione della nazione lacerata dai conflitti etnici, Tutu ha investito molte delle sue energie nelle lotte più significative del XX e XXI secolo: celebri le sue campagne contro l’AIDS, la tubercolosi, la povertà, il razzismo, il sessismo e, ultimamente, contro omofobia e transfobia. Si è più volte proclamato a favore dell’eutanasia e del diritto a morire con dignità. Tra i bersagli delle sue critiche anche lo stato di Israele, che lo hanno reso non particolarmente simpatico agli Stati Uniti.
L’apartheid
Nel 1948, in Sudafrica, viene istituita la segregazione razziale, che rimane in vigore fino al 1991. Il suo promotore istituzionale è Daniel François Malan, Primo Ministro sudafricano dal 1948 al 1954. Chiamata sbrigativamente “apartheid”, questa politica prendeva spunto dal concetto di “sviluppo separato” dei vari gruppi etnici che, appunto, avrebbero potuto beneficiare dell’autodeterminazione. Ben presto, però, ciò si traduce in segregazione razziale, rafforzata ulteriormente dalla componente razzista religiosa basata sul calvinisimo olandese che giustifica teologicamente la “separazione delle razze”. In Sudafrica, neri e “meticci coloured” costituiscono l’80% della popolazione: i restanti sono coloni di origine britannica e afrikaaner, favorevoli a una politica razzista.
Le leggi introdotte sono molto rigide: no ai matrimoni misti, registrazione dei cittadini in base alla loro etnia, contrasto a ogni opposizione governativa etichettata come “comunista” e ancora ghettizzazione e ostilità nell’accesso all’istruzione e al mondo lavorativo. Particolarmente colpita da queste norme è l’etnia bantu, di fatto deportata nei “bantustan” e privata di ogni forma di diritto civile e politico.
Mandela, Tutu e la fine dell’apartheid
Protagonista indiscusso della lotta all’apartheid è sicuramente Nelson Mandela che condivide con il predecessore de Klerk il Nobel per la pace nel 1993. Ubuntu, internazionalista e socialista democratico, trascorre 27 anni in carcere per la sua ostilità alla segregazione. Liberato, porta il suo partito, l’African National Congress alla guida del Paese nel 1994, dopo le prime elezioni multietniche della storia sudafricana.
E dopo l’apartheid?
Non bastano le elezioni multietniche e la fine ufficiale della segregazione per rimettere pace nel Paese: ad abitare il Sudafrica, infatti, sono rimaste le stesse persone che, solo pochi giorni prima, portavano avanti gli ideali razzisti sopravvissuti a cinquant’anni di proteste e opposizioni. Che fare, dunque?
Una delle strade percorribili porta il nome di Truth and Reconciliation Commission (TRC), o in afrikaans Waarheid-en-versoeningskommissie (WVK), ossia “Commissione per la verità e la riconciliazione”. Essa non è altro che un tribunale straordinario, per indagare i crimini passati del governo, individuando le responsabilità, punendo i colpevoli, concedendo, laddove necessarie, grazie e, soprattutto, permettere al Paese di voltare pagina. È il primo esperimento di questo tipo nella storia e verrà replicato poi in altri contesti, come negli Stati Uniti, dopo il massacro di Greesboro, o in altri Stati africani.
Il lavoro concreto di Desmond Tutu
In concreto la TRC raccoglie le testimonianze di carnefici e vittime, con la possibilità di concedere amnistie a chi si costituisce. Ne sono esclusi, ovviamente, i reati di matrice comune e le violenze a opera della criminalità organizzata, rea di aver sfruttato i disordini sociali per incrementare i suoi affari. A comporre la commissione arrivano 17 membri, di etnia, professione, sesso, religione diversi. Desmond Tutu ne è il presidente e porta avanti lo scopo della commissione con grande carisma e responsabilità: non punire, ma chiarire, costringendo l’intera nazione a riflettere sulle cause dei delitti commessi.
Le conclusioni della Commissione
Dopo tre anni, il 28 ottobre 1998 la Commissione rende noti i risultati del suo lavoro. Desmond Tutu e i suoi portano alla luce i crimini governativi dell’apartheid, ma anche i reati compiuti dall’ANC e dalle organizzazioni paramilitari opposte al governo. Si arriva alla concessione dell’amnistia alla luce dei criteri di motivazione e proporzionalità: 849 sono le persone interessate da questo provvedimento, mentre su un totale di 7112 richieste, 5392 vengono negate e altre subiscono invece il ritiro.
L’operato della Commissione ha un’eco mediatica fortissima: molti afrikaaner si rendono per la prima volta conto degli abusi perpertrati dalla polizia e dalle forze dell’ordine. Crolla il consenso delle forze legate al National Party, anche tra le fila dei sudafricani bianchi.
Le critiche
Non mancano chiaramente le critiche alla Commissione e a Tutu: l’ex-presidente Pieter Willem Botha definisce il tribunale “un circo” e si rifiuta di comparire di fronte alla corte. Molte delle vittime dell’apartheid, secondo uno studio condotto in concomitanza alla pubblicazione dei risultati, considerano l’operato del tribunale inefficace nel suo scopo di riconciliazione. Puntano il dito in particolare contro l’eccessiva indulgenza della commissione. Tra questi figura la famiglia dell’attivistà Stephen Biko, assassinato nel 1977 dalla polizia. A suscitare grande sdegno, inoltre, è la conservazione, da parte di molti funzionari, dei ruoli di potere che ricoprivano durante la segregazione, per esempio nella pubblica amministrazione o nella polizia.
L’invocazione in altre realtà
Anche in molti altri Paesi del mondo si è spesso invocata la necessità di avere una Commissione che indagasse sui reati governativi di un certo periodo storico. Alcuni, seppure in modo differente e ante litteram, avevano già compreso l’importanza di pacificare, per poter voltare pagina, riconoscendo responsabilità e sondando i meccanismi di certi fenomeni: il processo di Norimberga ai nazisti, per citarne uno, ne è stato un esempio, seppure con molti limiti.
L’Italia, invece, non ha mai attuato nulla di tutto ciò, né per quanto riguarda gli anni del fascismo, né per tutti i conflitti sociali e politici che sono scaturiti negli anni successivi, come ad esempio per le tensioni degli anni di piombo. Grandi scandali e segreti misteriosi vengono messi, più timidamente, sotto il tappeto: meglio non etichettare, non sapere e confondere, in modo che non si riconoscano responsabilità e non si ascriva un atto a un fenomeno più complesso. Ed è così, poi, che si arriva alla coperta corta della “matrice sconosciuta” con cui i politici di oggi tentano di rattoppare il problema politico della responsabilità di certi atti.
Elisa Ghidini