La storia di Agitu Ideo Gudeta, per come viene raccontata dalla stampa nostrana, è ancora una volta un concentrato implicito di razzismo, stereotipi e logiche basate sul “deserving migrant”. Cos’è? Ve lo spieghiamo qui sotto.
E’ martedì 29 dicembre 2020. E’ sera. Poche ore prima è stato ritrovato il corpo di Agitu Ideo Gudeta, uccisa nella sua casa in Trentino. Subito la stampa nostrana, affamata di notizie con cui rifocillarsi famelica dopo un anno di pandemia, si getta a capofitto sulla ricca scorpacciata di cronaca: c’è l’omicidio, c’è il mistero, c’è presumibilmente la questione etnica. C’è pure qualche denuncia della vittima per episodi di stalking e razzismo. Bon. La gara comincia: si inizia a utilizzare come al solito un fatto di cronaca al servizio di uno schieramento politico più che un altro. Non si sa ancora praticamente nulla, ma ci si rincorre nell’infilare la morte dell’imprenditrice di origine etiope all’interno del calderone dell’omicidio razzista. Poi, però, arriva la contraerea dello schieramento opposto che afferma, con malcelata soddisfazione, che “è stato il suo dipendente ghanese”.
Un lavoro sul linguaggio
Fatto sta che Agitu Ideo Gudeta è morta. E anche questo triste episodio è la dimostrazione di quanto ancora sia necessario lavorare su linguaggio, categorizzazioni e stereotipi quando tentiamo di parlare di questi accadimenti.
Rari sono gli articoli sul caso della signora Gudeta che non inseriscono la sua storia all’interno della cornice del “deserving migrant”, un concetto che, per essere compreso, deve prendere le mosse da quella forma di razzismo che ci porta a considerare il rispetto come un premio di guadagnarsi per chi non è nato in Italia.
La narrazione del deserving migrant
Il migrante, come in questo caso, è deserving, cioè meritevole, solo se compie delle azioni eroiche, gloriose, nobili, come effettivamente ha fatto per tutta la sua vita Agitu Ideo Gudeta. Dietro ai commoventi tributi scritti in buonafede per ricordare l’operato dell’imprenditrice in Italia, si nasconde un pensiero infido, ma non meno razzista. A noi, italiani di nascita, di sangue, di suolo, è riservata una forma di rispetto di cittadinanza, mentre il migrante deve guadagnarsi tutto.
Una categorizzazione binaria
Il migrante, per il giornalismo e la politica italiana, o è una minaccia o è un eroe. Non esiste la categoria intermedia della persona, che non ha nessun dovere di svolgere azioni nobili per essere quantomeno considerato. Esattamente come non facciamo nulla di nobile noi, cittadini italiani, per guadagnarci il rispetto degli altri, ma ci viene infilato nel bagaglio alla nascita, insieme a una serie di privilegi dati puramente dal caso di essere nati sulla costa buona del Mediterraneo. “Criminali”, “minacce”, “problemi”, oppure “risorse”, a volte “angeli” o mal che vada “cuccioli da trarre in salvo”: queste sono le categorie della retorica in cui ci piace e ci fa comodo infilare le vite di chi viene da un altro Paese, siano essi migranti, immigrati, rifugiati, richiedenti asilo o cittadini italiani di origine straniera.
“Esempio di integrazione”?
La storia di Agitu Ideo Gudeta ha tutte le caratteristiche per essere data in pasto alla cronaca nostrana che la rimastica e la eleva a “esempio di integrazione“. La stessa ministra per le politiche agricole Teresa Bellanova ha usato queste parole per ricordare l’imprenditrice etiope trapiantata in Trentino. Il problema forse sta proprio qui, nel concetto di integrazione: l’integrazione non è compiuta finché c’è bisogno di parlarne attraverso i simboli. Quello che a noi piace, a dire il vero, non è l’integrazione, cioè la conservazione delle radici culturali e degli elementi che costituiscono la propria identità anche in un altro Paese, ma è più l’assimilazione. Il migrante è integrato, o meglio “assimilato”, se si inserisce nel nostro tessuto sociale e ne sposa a pieno ritmi, riti e quanti più aspetti culturali possibili. Chi mantiene la sua cultura, la sua identità e la sua lingua d’origine non rientra in questa descrizione e nel nostro concetto fuorviante di integrazione. Nella storia di Agitu Ideo Gudeta, infatti, si omette di raccontare che, comunque, l’integrazione non era perfettamente colta da chi le stava intorno, se fino a poco tempo fa la donna continuava a ricevere minacce razziste.
Lo facciamo tutti i giorni, anche bonariamente
Anche quando la stampa si rivolge a lei, ne parla semplicemente come “Agitu”, perché il nome intero è difficile da ricordare. Anche questa, per quanto sottile può essere una forma di discriminazione: è lui o lei ad arrivare in Italia? Allora è lui o lei a doversi adattare a soprannomi e storpiature: come a dire “Facciamo già troppo sforzo ad accoglierti per pretendere di ricordarci il nome per intero”. Certo, bonariamente, è sempre capitato anche nelle aule di scuola o al lavoro che qualcuno dicesse all’alunno o al collega straniero: “Ti chiamo per nome, eh, che è troppo difficile”. Così come accade che le persone straniere non meritino il “lei” di cortesia, ma si possano accontentare, nella nostra logica, di un più confidenziale “tu”. Lo facciamo per aiutarli, no? Siamo bravi, no? Ehm: no. Anche se animati dalle migliori intenzioni, dovremmo soffermarci a riflettere. Di fatto stiamo rinunciando a riconoscere parte dell’identità della persona che abbiamo davanti, per facilitare noi stessi. La stiamo infantilizzando. Non possiamo sforzarci un po’ di più e non aspettare che sia sempre l’altro, quello nato sulla costa sbagliata, a dover muovere un passo verso di noi?
Una visione pseudotollerante
Agitu Ideo Gudeta è, per la nostra visione eurocentrica e pseudotollerante, la rifugiata degna. Non che non lo sia: ma quante prove da superare si chiedono a chi arriva da un altro Paese semplicemente in cambio di considerazione? Non si è mai integrati abbastanza, insomma, per essere definite “imprenditrici” e non “esempi di integrazione”. Non è una novità: il solito meccanismo interviene quando qualche persona di origine straniera compie qualcosa di lodevole. Immediatamente la politica si divide nei “Si merita la cittadinanza” e in quelli del più imbarazzato “Vedremo”. Ricordate i due ragazzini di origine egiziana che, con grande coraggio e sangue freddo, contribuirono a sventare il dirottamento del loro scuolabus che trasportava 51 persone? Su di loro si aprì il classico dibattito all’interno della cornice del deserving migrant.
Utilitarismo di matrice razzista
Per carità, in un mondo di storture e di meccanismi implicitamente razziste, spesso si tratta di un ragionamento non fatto in malafede. Che tutte le persone dotate di un minimo di umanità dicano “Certo, si meritano la cittadinanza” non è, in sè, la vera stortura. La questione è più sottile. È forse necessario riflettere sul modo non paritario con cui implicitamente ci approcciamo alle persone straniere: se riusciamo a dismettere le vesti della paura e dell’intolleranza, sorge però il rischio di guardare a questi esseri umani con pietismo o senza il metro di misura che useremmo per chi ha la pelle del nostro stesso colore. Non è, anche questo, un doppiopesismo che nuoce all’obiettivo dell’uguaglianza? Alla fine il migrant rischia di essere meritevole, deserving, solo se si configura non come persona, ma come un prodotto che, oltre a essere perfetto, diventa utile, nell’ottica di un razzismo in borghese di stampo utilitaristico. E allora sì, che si merita i diritti, la cittadinanza, il rispetto. Non prima.
Elisa Ghidini