È arrivato ieri verso le 23 (ora italiana) l’atteso verdetto del processo che ha visto coinvolto l’ex agente Derek Chauvin, accusato dell’omicidio del 46enne afroamericano George Floyd. La sua morte, avvenuta il 25 maggio 2020 a Minneapolis, aveva scatenato un’ondata di indignazione e di proteste guidate dal movimento Black Lives Matter.
Il processo
Il processo ha avuto inizio il 29 marzo e si è concluso con la dichiarazione della colpevolezza di Derek Chauvin per tutti e tre i capi di imputazione. L’ex agente era stato accusato di omicidio involontario di secondo grado (pena massima 40 anni di carcere), omicidio di terzo grado (pena massima 25 anni) e di omicidio colposo (pena massima 10 anni). Tuttavia si dovrà attendere altre otto settimane per sapere quale sarà la pena che dovrà scontare Chauvin, che nel frattempo rimarrà in carcere. Nel sistema giudiziario americano, gli anni di carcere corrispondenti a diversi reati non sono cumulabili: il massimo della pena che il giudice potrà stabilire per Chauvin corrisponde a quella del capo di imputazione più grave, dunque 40 anni.
Altri tre agenti sono stati incriminati per l’omicidio: Thomas Lane, J. Alexander Kueng, e Tou Thao. Il loro processo dovrebbe svolgersi il prossimo agosto.
L’arresto e la morte di George Floyd
Il 25 maggio 2020 il gestore di un negozio di Minneapolis chiama la polizia perché sospetta che George Floyd abbia utilizzato una banconota falsa da 20 dollari per pagare delle sigarette. Secondo la ricostruzione del New York Times, basata sui video delle telecamere di sorveglianza e dei passanti presenti sul posto, gli agenti Keung e Lane erano riusciti a fermare Floyd e ammanettarlo senza che l’uomo opponesse resistenza o mostrasse atteggiamenti violenti. Qualche minuto dopo Floyd cade a terra e si rifiuta di entrare nell’auto della polizia. Sembra che in quel momento avesse già iniziato a sentirsi male.
Arriva una terza auto della polizia da cui scendono Chauvin e Thao, ma anziché aiutare i colleghi a fare salire Floyd sull’auto, Chauvin lo trascina a terra, bloccandolo con l’aiuto di Kueng e Lane. A questo punto si verifica la scena diventata tristemente nota in tutto il mondo in cui Derek Chauvin preme il ginocchio sul collo di Floyd per 8 minuti e 46 secondi, nonostante le sue richieste di aiuto. «I can’t breathe», ripete più volte prima di perdere conoscenza. Nonostante Floyd fosse a quel punto ammanettato e incosciente, Chauvin non lo lascia andare e continua a spingere.
Il dibattimento
Eric J. Nelson, l’avvocato di Chauvin, aveva tentato di sviare le accuse dal suo assistito puntando sul fatto che Floyd fosse già malato e avesse assunto metanfetamine e fentanyl il giorno del suo arresto. Si era inoltre appellato alla giuria perché considerasse la vicenda nella sua interezza, senza fermarsi a quei nove minuti in cui Chauvin tratteneva Floyd con il ginocchio. Derek Chauvin avrebbe agito in quel modo (definito “ragionevole” dal suo avvocato) a causa della “resistenza attiva” mostrata da Floyd e dell’inesperienza dei colleghi arrivati per primi sul posto, che non erano riusciti a farlo salire in macchina.
Il procuratore Steve Schleicher aveva invece sostenuto che Floyd non costituiva una minaccia e che i poliziotti avevano violato le procedure.
Una sentenza simbolica
Nei giorni del processo c’è stata una grande mobilitazione da parte dei sostenitori del movimento Black Lives Matter. La tensione precedente la sentenza ha portato a incrementare le misure di sicurezza, nel timore che un’ eventuale assoluzione di Chauvin avrebbe potuto generare scontri e rivolte.
Il presidente Joe Biden ha accolto con entusiasmo e sollievo la notizia del verdetto, dichiarando che si tratta di un grande passo avanti contro il razzismo negli Stati Uniti. Con questa sentenza, ha continuato Biden, si è affermato che nessuno è al di sopra della legge.
In un paese assuefatto alla violenza e alla brutalità della polizia, dove gli omicidi degli afroamericani sono quasi all’ordine del giorno e dove il razzismo sistemico continua a fare vittime, una sentenza come questa ha un grande valore simbolico.
Nonostante il verdetto potesse sembrare scontato a causa dei video e delle proteste che hanno caratterizzato la vicenda, si tratta invece di un primo passo importante per smantellare un sistema che vive di impunità. Il fatto che Chauvin, e tanti come lui, abbia potuto agire in quel modo, si spiega in gran parte perché la sua convinzione di uscirne illeso schiacciava nettamente il rischio di essere incriminato.
La condanna di Derek Chauvin non è che la necessaria (e doverosa) premessa per agire in maniera concreta e strutturale su un sistema ingiusto, di cui il braccio armato della polizia rappresenta gli estremi più brutali.
È fondamentale riformare la polizia, addestrare gli agenti e punire severamente gli abusi di potere. Ma non si può trascurare un lavoro che vada ad incidere in profondità sulla mentalità e sui comportamenti di tutti i cittadini. La sfida principale di Biden, che raccoglie un’eredità di sfaceli e un paese fratturato e in crisi morale ancor prima che economica, sarà proprio questa.
Giulia Della Michelina