Il “demone della perversità” è in tutti noi: nati per commettere il male

demone della perversità

Il demone della perversità è un racconto pubblicato da E.A.Poe nel 1845, dove teorizza la presenza di un principio autodistruttivo in tutti noi

Tutti conosciamo, bene o male, il carattere delle storie di Edgar Allan Poe (1809-1849), almeno per sentito dire: storie spaventose, che trattano di omicidi e di allucinazioni, della paura di precipitare nell’abisso e di spose fantasma, che tornano a tormentare l’amato dopo la loro morte prematura. Ma l’autore decide di dare una base teorica alle sue storie, una causa che le scatena tutte quante, ed è proprio la perversità.

Il demone della perversità, oltre a essere un racconto, è anche un saggio, poiché Poe espone sotto forma di idee ordinate e argomentate i motivi per i quali dovremmo ritenere la perversità un principio naturale e invincibile tanto quanto la necessità di mangiare e di bere. Infatti, la perversità è quella forza invisibile presente in tutti noi, che ci spinge a commettere della azioni contro i nostri stessi interessi, senza uno scopo comprensibile, o meglio agiamo proprio perché non dovremmo farlo.

Io non sono tanto sicuro di respirare quanto lo sono del fatto che la certezza del male o dell’errore di una data azione è di solito l’unica forza invincibile che ci spinge, essa e nient’altro che essa, a condurre a fondo quell’azione.

L’autore nota come all’epoca era qualcosa di talmente vergognoso, che non sarebbe mai stato ammesso dalla comunità scientifica, fondata sulla frenologia, una scienza che localizzava le funzioni psichiche in precise zone del cervello: pare non ci fosse una zona corrispondente alla perversità. I frenologi hanno compiuto uno sforzo per identificare la perversità con la combattività, ma questo impulso era finalizzato alla difesa personale e a realizzare un desiderio di benessere, obiettivi completamente assenti nella perversità.



Il demone della perversità ci spinge a provocare qualcuno con le nostre parole, a rimandare di giorno in giorno un compito da fare, a spingerci sull’orlo di un precipizio…

L’autore riporta alcuni esempi di vita comune in cui il demone della perversità prende il sopravvento su di noi, e che ci fanno capire come non riguardi solo azioni massimamente criminose come omicidi, ma semplici atteggiamenti. È  naturale attribuire questa tendenza all’autodistruzione a una forza estranea da noi, quindi un demone, perché agisce contro i nostri interessi, quindi non possiamo essere noi.

“Non esiste uomo che ad un certo momento non sia stato tormentato, ad esempio, dal cocente desiderio di provocare uno che lo ascolti. […] egli teme, anche, e scongiura, la collera di colui al quale si rivolge; e tuttavia il pensiero di svegliare questa collera lo colpisce.”  Chi di noi non ha mai provocato il proprio interlocutore, sia esso un amico, un conoscente o addirittura un familiare? Non si sa bene dire il perché, ma la prospettiva di infastidirlo, di turbarlo, può sembrarci attraente.

Oppure chi di noi sa spiegare perché ci capita di rimandare, giorno dopo giorno, un compito che deve essere portato a termine il prima possibile, ben consapevoli che così sara impossibile realizzarlo? È un rimandare indubbiamente perverso, perché arriveremo al momento in cui sarà troppo tardi per lavorare, ma solo allora saremo liberi dal demone che ci impediva di farlo. “Sarà l’ombra a prevalere, e noi ci affanniamo invano.”

O, ancora, se ci trovassimo sull’orlo di un precipizio, proveremmo sicuramente vertigini e paura di cadere, ma anche una sensazione ineffabile di curiosità per ciò che sentiremmo durante il precipitare da una simile altezza.

Il narratore è un condannato a morte, una delle vittime del demone della perversità, poiché incapace di resistergli

Il narratore di questo racconto si mostra incapace di resistere a questo demone, come molti dei personaggi di Poe e di altri autori del Romanticismo europeo, ad esempio Hoffmann e Dostoevsky. Il demone non è altro che l’anticipazione del subconscio che teorizzerà più tardi Freud, infatti, è la sede di quei desideri che non ammettiamo a noi stessi, ma che trovano sempre il modo per emergere.

Il narratore è condannato all’impiccagione perché accusato di omicidio, grazie a una testimonianza inattesa, improbabile: la sua. Il pensiero che lui stesso avrebbe potuto essere la causa della sua rovina, se solo l’avesse voluto, se solo avesse parlato, cominciava a ossessionarlo, e il narratore poteva liberarsene solo se avesse confessato.

Dunque, l’uomo è buono o cattivo? Socrate diceva che tutti gli uomini agiscono per quello che secondo loro è il bene, quindi alla base di un’azione deplorevole c’è un’errata concezione di bene.
Grazie a Poe, questo secolare interrogativo sembrerebbe trovare un’altra risposta: l’uomo è superficialmente buono, ma intimamente cattivo.

Francesca Santoro

 

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