Demolizione navale in Bangladesh: tra business e schiavitù

Demolizione navale in Bangladesh

Vi siete mai chiesti dove vengono smaltite le grandi navi europee? La destinazione principale sono i pericolosi cantieri del Bangladesh, dove le regole internazionali e i diritti umani non arrivano

Il rapporto sulla demolizione navale in Bangladesh, “Trading Lives for Profit: How the Shipping Industry Circumvents Regulations to Scrap Toxic Ships on Bangladesh’s Beaches” – pubblicato pochi giorni fa da Human Rights Watch e dall’ONG Shipbreaking Platform – rivela una rete utilizzata dalle grandi compagnie di navigazione europee per mandare le navi fuori uso in pericolosi e inquinanti cantieri bengalesi.

In questi luoghi, le protezioni ambientali e del lavoro sono quasi totalmente assenti. I cantieri scaricano rifiuti tossici sulle spiagge e in acqua, aggirano le misure di sicurezza e sfruttano i lavoratori.
Una vera e propria forma di schiavitù, dalla quale le compagnie navali traggono profitto aggirando le regole internazionali e sfruttando le lacune delle normative europee.

Demolizione navale in Bangladesh: come gli europei aggirano la legge

La demolizione navale, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), è uno dei lavori più pericolosi al mondo. Sia per i lavoratori, che per l’ambiente.
Per questo motivo, secondo le leggi internazionali e regionali, è vietato esportare le navi fuori uso in luoghi che non hanno garantiscono adeguate protezioni ambientali o del lavoro.
Ma la legge è semplice da aggirare.




Da regolamento, le navi battenti bandiera dell’UE sono tenute a riciclare le loro navi in un impianto approvato dall’UE. Eppure, sebbene la maggior parte delle navi sia originariamente di proprietà di compagnie europee, dell’Asia orientale o del Sud-Est asiatico, la destinazione finale di oltre l’80% di tutto il tonnellaggio di navi a fine vita è una delle tre spiagge dell’Asia meridionale: Chattogram in Bangladesh, Alang in India e Gadani in Pakistan.
Tra questi, il Bangladesh è il posto più economico per demolire navi, ma anche quello in cui si verificano più frequentemente incidenti gravi e mortali.

Per eludere la legge, le compagnie di navigazione europee vendono la loro nave a un commerciante di rottami chiamato “acquirente di contanti “. Nel frattempo, la bandiera UE viene sostituita con una “bandiera di comodo” di un altro Paese.
Infine, il commerciante, tramite una società di comodo, vende il rottame al Bangladesh, rendendo quasi impossibile rintracciare l’entità che effettivamente controlla e beneficia della vendita.
Come testimonia il Review of Maritime Transport compilato dall’ONU nel 2022, mentre oltre il 30% della flotta mondiale a fine vita era di proprietà di società europee, meno del 5% aveva una bandiera dell’UE al momento della rottamazione.

Il motivo che spinge le compagnie navali a vendere le navi all’Asia meridionale è, naturalmente, il profitto. Se un cantiere europeo può pagare tra i 100 e i 150 dollari per tonnellata di materiale un cantiere bengalese può arrivare a 400, quadruplicando il profitto per poi rivendere l’acciaio.
A questo business prende parte anche l’Italia, come ha dichiarato Nicola Molinaris, Policy Officer della Shipbreaking Platform.

Armatori quali Grimaldi Group, Cafiero Mattioli, Saipem e Vittorio Bogazzi si sono contraddistinti per pratiche di demolizione inaccettabili

Schiavi senza diritti: “se parliamo, perdiamo il lavoro”

Le navi demolite in Bangladesh sono circa 200 all’anno (1 su 5 nel mondo), tramite il lavoro di 25.000 operai. Il tutto, senza alcun tipo di protezione sul lavoro.
Gli operai dei cantieri navali, intervistati dalle due ONG, hanno dichiarato di non essere dotati di dispositivi di protezione, formazione o strumenti per lavorare in sicurezza. Ciò ha determinato, negli anni, un significativo crollo dell’aspettativa di vita per gli operai della demolizione navale, che è di ben 20 anni inferiore alla media bengalese.

In questi cantieri, si comincia a lavorare sin da bambini. Il 13% della forza lavoro è costituita da minori, numero che raggiunge il 20% nei turni notturni illegali.
Kamrul, oggi 39enne, lavora alla demolizione di navi in Bangladesh da quando aveva 12 anni.

Non siamo al sicuro nel cantiere navale mentre lavoriamo. I chiodi ci colpiscono, o le fiamme ci ustionano. La maggior parte dei lavoratori, ad un certo punto, si brucia. Non mi sento mai al sicuro

In assenza di guanti, gli operai utilizzano i calzini per tagliare l’acciaio fuso. Per evitare di inalare fumi tossici si avvolgono le camicie attorno al volto, e trasportano pezzi di acciaio a piedi nudi.
Alcuni hanno riportato lesioni a causa dalla caduta di pezzi di acciaio, o perché rimasti intrappolati all’interno di una nave.
Hasan, 25 anni, è stato costretto a lasciare il lavoro dopo essere caduto dal secondo piano di una nave.

Non avevo un’imbracatura di sicurezza, quindi sono caduto a circa 4,5 metri al piano terra

Il 20enne Rakib ha sviluppato una cancrena alla gamba dopo che un pesante pezzo di ferro gli ha tagliato l’arto e trapassato lo stomaco.
Il suo collega Sakawat, di 28 anni, si è rotto un piede, che è stato poi amputato. Ha quindi perso il lavoro, trovandosi a mendicare sulla strada.
Mohammed, 35 anni, è rimasto ferito durante l’esplosione di un tubo. La pressione lo ha scaraventato contro il muro, bruciandogli la faccia e rompendogli la schiena. Ora vende tè a una bancarella.

Nonostante tutti i pericoli e gli incidenti, come racconta Sohrab, l’azienda non ha intenzione di fornire garanzie di sicurezza agli operai.

Lavoro a piedi nudi. Questo è il motivo per cui i lavoratori spesso vengono feriti a causa di incendi, o con fili o chiodi che ci pugnalano ai piedi. L’azienda non fornisce nulla per la nostra sicurezza. Se chiedo attrezzature di sicurezza, i proprietari dell’azienda dicono: “Se hai un problema, allora vattene

Nessuno dei lavoratori nella demolizione navale in Bangladesh ha un contratto scritto. Questo fa sì che i salari siano distribuiti a totale discrezione del datore di lavoro. Ed è lui a prendere ogni decisione su orari, pause e licenziamenti.

Alcune aziende prendono le firme dei lavoratori solo per scopi ufficiali. Ma in realtà questi ‘contratti’ non vengono consegnati ai lavoratori. A volte firmiamo su un documento contrattuale, ma a volte anche solo un pezzo di carta bianco.

Non abbiamo nessun sindacato dei lavoratori che possa lottare per i nostri diritti.
E se alziamo la voce, perdiamo il lavoro

Parlare di ciò che accade all’interno dei cantieri, sia in Bangladesh che fuori, è vietato da una forte pressione aziendale. Anche aver preso parte alla stesura del rapporto di Human Rights Watch e Shipbreaking Platform potrebbe costare il lavoro agli operai intervistati.

Se l’azienda scopre che ho parlato con te, allora affronterò ritorsioni e potrei perdere il lavoro.
Ma quello che ti sto dicendo è vero. Non so se le compagnie di demolizione delle navi penseranno mai a noi come umani, e ci forniranno attrezzature di sicurezza

Rifiuti tossici: danni irreparabili all’ecosistema

Secondo la Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e del loro smaltimento, i Paesi esportatori dovrebbero ottenere il consenso informato preventivo del Paese importatore, e garantire che le navi siano inviate solo verso Paesi capaci di una gestione dei rifiuti sostenibile dal punto di vista ambientale.
Ma tra questi Paesi, non è compreso il Bangladesh. Dove i consensi vengono compilati senza alcuna supervisione o trasparenza.

I cantieri navali utilizzano una tecnica, più volte criticata da organizzazioni umanitarie, detta “spiaggiamento“.
Le navi navigano a tutto vapore sulla spiaggia durante l’alta marea, così da poter essere smontate (a mani nude) direttamente sulla sabbia, invece che su una piattaforma.
Il cantiere, trovandosi sulla spiaggia, è pieno di pericoli. E i rifiuti tossici, tra cui l’amianto e il piombo, finiscono direttamente in mare. Oppure nei mercati dell’usato dove, ogni anno, circa 2 milioni di tonnellate di acciaio (tra cui qualunque pezzo di lamiera, ponte, albero, imbuto, portello, passerella, filo, dado, cavo, bullone…) alimentano l’economia del Bangladesh, a spese della salute dell’intera comunità.

Tutto ciò, d’altra parte, mette in crisi il lavoro di tantissimi pescatori. Come Aijaz, che ha iniziato a lavorare nella demolizione navale perché il mare era troppo inquinato per continuare a pescare.

L’acqua è inquinata dalle navi che gettano il carburante e le sostanze chimiche nell’acqua, che sono dannose per le piante marine e i pesci. I pescatori non ottengono il pesce come prima, c’è scarsità

Demolizione navale in Bangladesh: normative urgenti

Sulla grave situazione della demolizione navale in Bangladesh, è intervenuto Ingvild Jenssen, direttore esecutivo e fondatore di Shipbreaking Platform.

Smontare le navi sulle distese fangose di marea espone i lavoratori a rischi inaccettabili con conseguenze fatali e provoca danni irreparabili agli ecosistemi costieri sensibili.
Il costo del riciclaggio sostenibile delle navi deve essere sostenuto dal settore marittimo, non dalle persone e dall’ambiente in Bangladesh

Inoltre, Human Rights Watch e Shipbreaking Platform hanno chiamato in causa l’UE perché riveda la normativa, in modo da impedire che questa venga così facilmente raggirata.

Per garantire la capacità globale di riciclare in sicurezza il massiccio afflusso previsto di navi fuori uso nel prossimo decennio, le compagnie di navigazione dovrebbero investire nella costruzione di piattaforme stabili con uno standard che protegga pienamente i diritti dei lavoratori e includa meccanismi per la gestione a valle e lo smaltimento dei rifiuti.
L’UE dovrebbe rivedere il regolamento sul riciclaggio delle navi per ritenere effettivamente responsabili le compagnie di navigazione e impedire loro di eludere la legge

Nel 2025, entrerà in vigore in Bangladesh la Convenzione di Hong Kong, stipulata nel 2018 sotto la guida dell’International Maritime Organization (IMO).
Questa dovrebbe garantire una demolizione e un riciclo dei materiali sicuro, sia per gli operai che per l’ambiente. Anche se le ONG temono che la Convenzione non porterà alcun cambiamento significativo.

Giulia Calvani

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