Di Isabella Rosa Pivot
La distesa di croci al cimitero Flaminio a Roma, contrassegnate dai nomi delle madri che hanno abortito, è solo uno dei tanti cimiteri di feti presenti in Italia.
Jennifer Guerra, giornalista di The Vision, ne ha mappati una cinquantina circa, portando alla luce una situazione assai grave ed umiliante per le Donne.
Cosa sono e come funzionano i cimiteri di feti?
In pratica, quando una donna abortisce, il feto può essere prelevato dall’ospedale a sua insaputa, trasportato in cimitero e seppellito con rito religioso, con “nome e cognome della madre” scritto su una croce, insieme alla data dell’aborto.
Questo modus operandi ha avuto inizio nel 1999 con “Difendere la vita con Maria”, un’associazione di volontariato di Novara: è stata tra le prime a stipulare accordi con aziende ospedaliere e Comuni su quelli che la legge definisce “prodotti abortivi”, ossia quello che resta in seguito a un aborto, che sia terapeutico, spontaneo o (come la maggior parte dei casi) un’interruzione volontaria di gravidanza.
Questa e le altre associazioni che hanno agito nello stesso modo, lo fanno legalmente, poiché approfittano delle leggi ben poco stringenti nel campo dello smaltimento dei rifiuti ospedalieri.
Una volta abortito, la donna ha tempo 24 ore per fare richiesta di sepoltura del feto, pena il decadimento di ogni diritto. Appaiono così le associazioni religiose che, grazie ad accordi con gli ospedali, dispongono del “prodotto abortivo” ed hanno la libertà di seppellirlo con una cerimonia religiosa: processioni con il carro funebre, letture delle Sacre Scritture, benedizioni e preghiere… Nessuno è a conoscenza dell’avvento di questi riti, a cui posso partecipare liberamente, oltre al prete, volontari e credenti.
Molte sono state le denunce di donne che hanno trovato una croce dedicata al feto, con il loro nome a caratteri cubitali e senza consenso.
Stiamo assistendo in silenzio, da 20 anni ormai, all’ennesimo attacco alla legge 194, un diritto in continuo bilico: “Città per la vita”, “comune a sostegno della vita e della famiglia”, “l’aborto non come mezzo per il controllo delle nascite”… Sono solo alcune delle molteplici formule approvate nei Consigli comunali; stiamo parlando di decine di mozioni pro-vita, che vengono promosse nella quasi totalità da partiti di destra (soprattutto Lega e Fratelli d’Italia). Tutte che sopravvivono appoggiandosi a dei documenti intrinsechi di ideologie antiabortiste e che puntano a minare uno dei diritti più importanti che ha ottenuto la donna, dopo anni di lotte.
La questione però, riguarda strettamente anche il discorso sulla privacy e nasconde un significato più profondo di discriminazione di genere: in Italia, appena un bambino vede la luce, prende quasi istantaneamente il nome del padre, con codice fiscale già pronto alla mano. Quando invece il discorso verte su sofferenza, interruzione di gravidanza, malattia o traumi, ecco che l’unica ad essere messa sotto accusa è la donna. Una laicità legislativa dunque solo apparente e per nulla sostanziale, caratterizzata da una colpevolizzazione violenta, di riflesso chiaramente religioso e molto contradittorio in una società che propugna l’aborto come un diritto.
Coma ha affermato Cathy La Torre, avvocata e attivista bolognese per i diritti civili
“Si tratta di una inaudita violazione della privacy e in particolare del regolamento europeo del 2016 che vieta di trattare dati genetici, relativi alla salute o alla vita sessuale della persona”.
Grazie allo scandalo sui social, questa situazione incresciosa è venuta a galla e sono in molte le donne e le associazioni che stanno prendendo provvedimenti. Allo stesso tempo, ancora molti non si rendono conto della gravità e del danno perpetrato dai cimiteri dei feti: dare dignità e rispetto a una persona che non c’è più diventa la scusa per toglierne completamente a chi resta.
Dobbiamo prendere coscienza che negli ospedali italiani si sta consumando ogni giorno (da 20 anni) una sorta di patto fra le associazioni religiose e la sanità pubblica, che dovrebbe essere invece laica. Un patto aberrante che vede calpestati diritti e rispetto. Un patto che le associazioni pro-vita ed antiabortiste hanno stretto, fingendo di voler supplire a un’esigenza pubblica, ma con il reale scopo di avere ancora una volta voce sul corpo e le scelte della donna.
Non restiamo in silenzio.