Del suicidio in carcere

La pericolosa deriva giustizialista suicidio in carcere Rieducazione in carcere

 


Di Francesca de Carolis


“Posso immaginarmelo/ tranquillamente crepato nel cuore / squassato nell’animo e tremante / davanti a tanto ferro grigio. //Posso credermelo ormai sfibrato / davanti a quelle regole diaboliche/che non aiutano nessuno/ …ed anzi spesso inducono / ad “infernali pratiche”. //Posso senza sforzo alcuno immaginare/ quella molle / morta corda / animarsi di colpo / “stiracchiarsi” / tirarsi sempre più / fin sulla barba / e poi oscillare fino a fermarsi…// Povero Nazareno! / Forse non riuscirà più a difendersi / ed ha scambiato il suo ultimo / tenue filo di speranza /con una robusta corda / da collo”.

Una poesia, che Giuseppe Perrone aveva dedicato all’amico Nazareno Matina morto il 3 giugno 2011 nel carcere di Spoleto. I parenti di Matina, ricordo, avevano comunque contestato il fatto che di suicidio si fosse trattato, e chiesto l’apertura di un’inchiesta. Che non so cosa sia poi successo, ma ritorna, per me, quella poesia ogni volta che so di persona che in carcere si è tolta la vita.

E quanto ritornano questi versi, in questi giorni che persone che in carcere si sono suicidate dall’inizio dell’anno sono già 44.

I numeri, forse li avrete già letti, ma non so… perché purtroppo non sembra notizia da prima pagina. Eppure…

L’ultimo aggiornamento di Antigone. Un suicidio ogni 5 giorni, quest’anno. E sempre più sono giovani, molto giovani, le persone che si tolgono la vita, fra i 20 e 30 anni, molte, in rapporto al loro numero, le donne. E sono persone che per lo più, ne abbiamo parlato, dovrebbero stare da tutt’altra parte. Persone fragili, magari con problemi di tossicodipendenza, come la giovane donna che qualche giorno fa si è tolta la vita a Roma.

Annus horribilis, verrebbe da dire…

Ma terribile, il tempo nel carcere, è sempre. Terribile e indecente, che altra parola non riesco a immaginare pensando a tanti “banalissimi” dettagli cui nemmeno si pensa, come essere chiusi in celle dove continuano ad esserci i water a vista, dove il caldo è soffocante, dove l’acqua è un miraggio…  ma vi dice niente, a proposito di questa indecenza, il fatto che addirittura il carcere di S.Maria Capua Vetere ( sì, quello dei pestaggi dell’aprile del 2020 per i quali sono stati rinviati a giudizio un centinaio fra uomini della polizia penitenziari, dirigenti del Dap e funzionari dell’ASL) sia stato costruito senza una rete idrica?

Da alcuni giorni leggere la rassegna stampa di Ristretti orizzonti, puntualissima su tutto ciò che riguarda le prigioni, è come scorrere una fiera degli orrori. Ogni volta mi chiedo, c’è da interrogarsi, come possiamo accettare tutto questo, come possiamo essere così indifferenti, come se chi è in carcere non appartenesse alla nostra stessa umanità. Una cosa è certa, quello che accade è il fallimento più evidente del ruolo punitivo dello stato.

E, a proposito di chi si toglie la vita nella cella di un carcere, vi giro ancora una domanda, che può sembrare una provocazione, ma forse non lo è: ma quando una persona si uccide in carcere, ed è alla “custodia” dello stato che una vita viene affidata, non è sempre e comunque di omicidio che si tratta? La risposta la trovo nelle parole del filosofo Giuseppe Ferraro:

“Non c’è delitto perfetto che non sia fare in modo che la vittima designata si faccia suicida. Il caso viene chiuso. Non ci sono prove, né impronte. Sono bastate le persecuzioni, le parole, l’esclusione, la mortificazione, l’emarginazione, la maledizione, la tortura. È stato alla fine la vittima a commettere il suo omicidio”.

Così scriveva Ferraro in una lettera a Carmelo Musumeci (L’assassino dei sogni, lettere fra un filosofo e un ergastolano), in una riflessione dopo il suicidio proprio di Nazareno, che era persona condannata all’ergastolo, che è condanna al buio oltre il buio.

Ma penso le sue parole valgano per tutti, se il carcere per tutti è inferno che separa, che toglie voce alla parola e sequestra l’esistenza. “Nazareno… Si devono chiamare così tutti i suicidi che eseguono per prima mano la loro condanna a morte”, suggerisce Ferraro.

E quanti Nazareni ancora, prima che la nostra società abbia un sussulto e fermi tutto questo…

 

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