Del ridicolo e della tragedia ai tempi del Social
La sensazione che non mi abbandona ormai da troppo tempo consiste nel sentirmi costantemente alla vigilia di qualcosa di drammatico. Nulla di ancora funesto, in quanto i greci insegnano che la declinazione tragica è sempre frutto di una scelta dell’uomo abitato dal dolore; quella che noi, con tardiva superficialità, definiamo follia, o gesto folle.
Siamo superficiali in questi casi per un semplice motivo: non guardiamo il lento maturare degli eventi che conducono al tragico e li giudichiamo solo al loro esploderci in faccia. Inutile poi – a giochi fatti – dire che la sorte è avversa perché il mondo è crudele, che l’umanità ha più le sembianze di Fedra che di Penelope, perché a dirla tutta le scelte sono sempre e solo nostre, persino quando “non scegliamo”.
Purtroppo – a differenza della letteratura greca – non c’è l’intervento diretto di un dio che sigilla alla bene e meglio la follia – pur lasciando vivida e in bella mostra l’umana stoltezza -, in fondo l’azione del divino in quei casi è spesso un evidenziare la assoluta superiorità del suo capriccio rispetto alle miserie umane, e, nel contempo, un ricordare all’uomo la sua finitezza, i suoi limiti, persino di fronte alle sue stesse azioni.
Allo stesso tempo si può cogliere una profonda e sadica ironia nel vedere la volontaria impotenza del coro (simbolo dell’intera umanità che guarda e racconta senza agire) che assiste e celebra le sofferenze dei personaggi. Tutto sospeso, chiuso in una bolla sorda e tragica composta dal silenzio del divino che agisce solo alla fine, ma solo per non rendere lo svolgersi degli eventi infinito.
In questa visione c’è poco di mitico, ancor meno di romantico; per quanto l’arte abbia rappresentato la tragedia colma di colore e carica di allegorie resta un fondo fumoso, fatto di materia informe, composto di pura cecità – seppur colma di presunzione – dinnanzi alla nostra incapacità di leggere le nostre scelte, di abitare la nostra condizione umana, un’incapacità con la quale addirittura giustifichiamo e alimentiamo la nostra indifferenza rispetto al resto dell’umano. Qualcosa che in fin dei conti ci lascia nostro malgrado soli.
Questo è un periodo che incede ai margini del tragico: se nelle nostre vite accade qualcosa di orribile siamo i personaggi di questa pantomima che tentano maldestramente di dare un senso alle proprie scelte, perlopiù procrastinandole sino all’inverosimile fino a rendere grottesche e comiche le sofferenze che diciamo di voler affrontare, in fondo come diceva Lenny Bruce la comicità non è altro che “tragedia più tempo”, dall’altra, come esseri connessi e social, assistiamo allo svolgersi globale degli eventi come semplice coro, la cui unica azione concessa – per quanto necessaria – consiste nell’indossare a seconda dei casi la maschera del lamento, quella del pianto retorico o della risata, solo uno specchio dell’umanità il cui riflesso ha pretesa di vissuto.
Grazie al coro le vicissitudini si rincorrono, saltano da una bocca all’altra, da un terminale all’altro, si condividono, si giudicano,ci si indigna. Attraverso la maschere digitali a disposizione possiamo manifestare in forma geroglifica empatia, rabbia, partecipazione e felicità, ma in realtà gli eventi –e di conseguenza i sentimenti a loro connessi – non sedimentano, semplicemente ci attraversano; si recita – nel senso più primitivo, materico e tragico del termine – una parte.
Non è una critica, né una valutazione etica, perché, con tutte le sue conseguenze, anche questa è vita. Anzi, nell’economia dell’ipocrisia umana che ci accompagna dalla notte dei tempi, è più vita della vita, in quanto possiamo “estendere” a dismisura la finzione.
Il prezzo di tutto questo è ancora da stabilire, ma sarà sicuramente alto, forse fuori dalla nostra portata, di certo possiamo già affermare che, nell’infinità di stimoli che ci investono, ci è e si sarà sempre più difficile possedere schemi, gestire le scelte, avere piena consapevolezza delle nostre conoscenze, di conseguenza delle nostre decisioni e dei loro effetti. Notiamo ad esempio una perdita di obiettività, segnali forti a riguardo arrivano dai rigurgiti revisionisti, dalle dottrine antiscientifiche e complottiste, tutti elementi che indicano una perdita di senso storico a favore di una frammentazione arbitraria della realtà, una sorta di pretestuoso e infondato imbarbarimento del principio Cartesiano ridotto ad ignoranza solipsistica resa endemica dal multimediale: “penso quello che mi pare e piace e quindi lo condivido, dunque sono”.
Umberto Eco aveva ragione: se un idiota dice in un bar che la terra e piatta finisce lì; la stupidaggine più che risuonare rintrona nel vuoto in cui nasce e marcisce, ma se lo dice in rete e cerca spostati come lui è un’altra cosa. Se c’è un nostalgico del nazifascismo che dichiara che i campi di sterminio non sono esistiti e lo dichiara sottovoce (perché è il primo a provare vergogna di se stesso) a quattro folli come lui è un conto ma se porto questa sciocchezza pericolosa in rete e cerco gente folle come me che la condivide genero un movimento di migliaia di idioti. Nulla di diverso da una forma nuova di inquinamento, un inquinamento digitale; nulla di più, nulla di meno.
Ecco la sensazione del drammatico che prende forma, che ora riesco a delineare, ma nei confronti della quale provo solo un forte senso di impotenza. Sono nel coro.
fonte foto, le Baccanti di Euripide