Ci sono bambini che in classe non riescono a stare seduti.
Sono distratti, faticano a seguire le lezioni, devono toccare tutto quello che hanno a portata di mano, mostrando difficoltà a svolgere i compiti in autonomia, sgridati dagli insegnanti e a casa dai genitori.
Concentrare l’attenzione sulle parole o sui numeri è complesso e vivono male questo loro strano modo di percepire la realtà che li spinge a comportarsi in maniera diversa dagli altri ragazzi e a subire lo scontento e le critiche di tutti.
Si parla di deficit di attenzione sintetizzandolo con l’acronimo inglese ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) per indicare comportamenti iperattivi, impazienza, difficoltà a rispettare le regole, anche di gioco, arrivando a ostacolare la normale integrazione sociale che può portare a chiudersi in sé stessi, con la sensazione di non essere compresi.
I medici consigliano di curarli ricorrendo a farmaci sedativi come il Ritalin o il Cylert, ma nel passato venivano catalogati come soggetti problematici.
Nel 1933 Gillian ha sette anni e la madre viene convocata a scuola per comunicare le carenze cognitive della figlia.
Un insegnante particolarmente “aperto” lascia la bambina da sola in una stanza con la radio accesa e conduce la mamma in un altro locale. Immediatamente la ragazzina si mette a danzare seguendo il ritmo della musica.
Il docente racconta alla genitrice e agli altri insegnanti che Gillian non è malata: rivela che è una ballerina e consiglia di farle frequentare un corso di danza.
Quando la bimba partecipa alle lezioni racconta entusiasta alla mamma che in quella scuola tutti gli altri ragazzi sono come lei perché non riescono a stare seduti e si muovono al ritmo delle note.
Gillian verrà ammessa alla Royal Ballet School conseguendo il diploma, per poi intraprendere una fantastica carriera da solista.
Fonderà la Gillian Lynne Dance Company diventando una famosa coreografa di produzioni celebri come “Cats”.
Ma, se nel 1933 le avessero somministrato un calmante senza comprenderla, avrebbe perso la possibilità di esprimere il proprio potenziale.
Molti dei soggetti affetti da ADHD hanno un quoziente intellettivo elevato non coerente con l’etichetta di soggetti problematici.
Negli anni ’80 la psicologa Nancy Ann Tappe pubblicò un libro in cui coniava il termine di Bambini Indaco dal colore dell’aura che emanavano. L’aura sarebbe quell’alone luminoso che circonderebbe persone, animali e piante, la cui esistenza è sancita dalla parapsicologia e negata dalla scienza.
Il tema venne ripreso alla fine degli anni ’90 anche dal sensitivo Lee Carroll e dalla moglie Jan Tober.
I bambini indaco sono descritti come individui speciali, dotati di particolare intelligenza, spiritualità, empatia e creatività che li porterà a essere degli adulti che spiccheranno nel settore lavorativo prescelto. Addirittura capaci di aiutare l’umanità a evolversi in positivo.
Da piccoli si trovano a gestire “energie” che devono imparare a conoscere e a controllare.
La difficoltà nel rapportarsi con l’autorità, il sentirsi incompresi e diversi da quanto viene considerato “standard” li spinge a isolarsi e apparire asociali: la collettività tende a sminuirne i pregi, preferendo soggetti più ”semplici” che seguono ordinatamente la corrente, le cui reazioni sono prevedibili e indirizzabili verso la direzione voluta.
Secondo questo pensiero i ragazzi affetti da ADHD non sono malati che necessitano di cure farmacologiche ma individui che abbisognano di attenzioni e affetto speciali che tengano conto della specifica indole.
Il modo con cui vengono valutati e trattati dagli altri li fa soffrire parecchio e talvolta il dolore può interiorizzarsi a tal punto da trasformarli in persone ribelli e autodistruttive. Effetti controbilanciati e annullati da accettazione e comprensione.
La comunità medica contesta queste interpretazioni perché indurrebbero i genitori a rinunciare alle cure illudendosi che i figli possiedano talenti nascosti invece che considerarli affetti da patologia mentale.
Dal canto loro chi dissente con i medici sostiene che non si è ancora dimostrato che i farmaci utilizzati migliorino il rendimento scolastico, consentendo solo una miglior gestibilità degli alunni sedandoli.
La medicina olistica considera ogni soggetto un essere a sé, dotato di caratteristiche uniche: quindi ogni malattia si sviluppa su un contesto differente di cui lo specialista deve tener conto. Questo porta a osservare con mente aperta e maggiore attenzione, evitando di catalogare ogni situazione in uno schema generico uguale per tutti.
Ciò che si definisce malattia non sempre è un evento meccanico da curare esclusivamente con farmaci: ascoltare e studiare con rispetto il paziente è un atteggiamento importante per aiutare con efficacia.
Per farlo serve però tempo, pazienza e motivazione.
Il presupposto è voler trovare una risposta che apporti benessere al paziente da parte di chi dovrebbe considerare il ruolo di medico una missione o un’Arte e non un semplice mestiere prestigioso e ben remunerato.
Mi viene in mente una frase di Albert Einstein adatta a chi presenta disturbi di apprendimento: “se si giudica un pesce dalla sua abilità ad arrampicarsi sugli alberi, passerà tutta la vita a credersi stupido”.
Paola Iotti