Era il 19 aprile 1937 quando il Consiglio dei ministri approvò il Regio Decreto Legislativo numero 880. La legge impediva agli Italiani di sposarsi con le donne di colore e di praticare il madamato.
Le leggi razziali promulgate dall’Italia fascista rappresentano una delle pagine più buie della nostra storia. Firmate nel 1938 da Benito Mussolini e avallate dal re Vittorio Emanuele III, legittimarono il razzismo nei confronti degli Ebrei fino al gennaio 1944, quando il governo di Badoglio le abrogò. Tuttavia, già un anno prima il Fascismo cominciò a porre le basi di una politica discriminatoria nei confronti delle etnie differenti. Ne fu prova il Regio Decreto Legislativo numero 880, che, a tutela della razza bianca, impedí i matrimoni misti in Africa.
Le colonie italiane
Alla fine del XIX secolo, il Regno d’Italia occupò l’Eritrea e la Somalia, due imprese a alle quali seguì il tentativo, fallimentare, di impossessarsi anche dell’Etiopia. Infatti, con la battaglia di Adua del 1896, l’Italia subì una gravissima sconfitta ad opera della popolazione africana. Dopo un periodo di stasi, il colonialismo italiano riprese nel 1911, quando, terminata la guerra italo-turca (1911-1912), l’impero ottomano cedette al Regno d’Italia la Libia e le isole del Dodecaneso.
Durante il Fascismo il colonialismo raggiunse la sua massima estensione, occupando anche l’Albania e l’Etiopia (1936). Tuttavia, l’Italia non divenne mai una grande potenza in Africa come invece furono la Francia o la Gran Bretagna.
1933-1936
Il Regio Decreto Legislativo numero 880 del 1937 è stato l’apice di un iter normativo discriminatorio cominciato molto prima. Infatti, già nel luglio 1933 fu promulgata la legge n. 999, ovvero l’Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia, che cambiò il diritto alla cittadinanza italiana per i figli meticci. Infatti quest’ultimi, se nati da padre italiano ignoto, potevano ottenerla solo ed esclusivamente, previo accertamento del possesso di specifici requisiti culturali e morali, al raggiungimento dei 18 anni.
Tale normativa fu poi modificata nel 1936, quando Mussolini sollecitò il Ministro delle Colonie, Alessandro Lessona, a promuovere provvedimenti più restrittivi contro il meticciato. Sicché, nel giugno dello stesso anno, il nuovo ordinamento tolse definitivamente ai figli misti il diritto di ottenere la cittadinanza italiana.
Il Regio Decreto Legislativo numero 880
Conosciuto come il decreto “Sanzioni sui rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi”, era composto da un solo articolo. Quest’ultimo puniva da uno a cinque anni di carcere
“il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi o concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana”.
Di fatto, tale legge rappresentò il primo tentativo di tutelare la razza bianca. Infatti, vietava sia i matrimoni misti sia il madamato, ovvero il concubinaggio di un uomo italiano con una donna africana. Tuttavia, dal momento che l’azione punibile, nota con il nome di affectio maritalis, era molto difficile da dimostrare, spesso i tribunali incontrarono diverse difficoltà nel condannare le persone.
Il madamato
Termine originatosi nelle colonie italiane, designava una relazione temporanea more uxorio tra un Italiano e una donna autoctona (la madama).
Prima della legge 880, il fenomeno si era già ampiamente diffuso in tutte le colonie e assunse le forme di un contratto sociale, caratterizzato dal predominio assoluto dell’uomo sulla donna. Purtroppo, le indigene costrette alla convivenza erano molto giovani, spesso bambine vergini, che, prelevate dalle famiglie, intrattenevano i coloni italiani. La scelta di giovanissime trovava giustificazione nel minor rischio di contrarre malattie veneree, rispetto all’avere rapporti con le prostitute.
Il comportamento dei soldati e dei civili
Sebbene le truppe militari fossero state avvisate della nuova legge, ci furono numerosi casi di convivenze miste. Tra i militari, si ricordano i maggiori Pallavicino e Quercia e il capitano Marone, tutti e tre rimpatriati nel 1937. Invece, i civili venivano giudicati dai magistrati, che peraltro spesso violarono in prima persona la legge. A tal proposito, un caso eclatante fu quello del conte Della Porta, il quale, presidente del tribunale civile di Addis Abeba, viveva proprio con una cortigiana dell’ex imperatore.
Le violenze sessuali
La decisione di abolire il madamato nel 1937 non si fondò certo su principi etici e morali volti a tutelare la donna. Infatti, il decreto condannava la convivenza prolungata, ma non le relazioni occasioni, che, anzi, il governo in un certo senso promuoveva gestendo le case di tolleranza. Insomma, di fatto, la politica fascista nelle colonie favorì da un lato il folle intento di conservare la purezza della razza e dall’altro avallò le atrocità di quello che si poté definire uno stupro legalizzato.
All’epoca della diffusione del Regio Decreto Legislativo numero 880, il Ministro delle Colonie scriveva: “L’accoppiamento con creature inferiori va considerato come uno scivolamento verso una promiscuità sociale, nella quale si annegherebbero le nostre migliori qualità di stirpe dominatrice. Roma fu dominatrice e moderatrice fra le stirpi più diverse elevandole a sé nella sua civiltà imperiale. Quando si abbassò per mescolarsi ad esse, cominciò il suo tramonto.”
Da un lato ingiustamente offese dalle leggi discriminatorie, dall’altro condannate alla schiavitù sessuale, in quegli anni purtroppo morirono centinaia di giovani donne africane a causa delle violenze o per le complicazioni sopraggiunte durante il parto. Un dramma per il quale è difficile trovare parole, soprattutto dopo aver letto quelle recitate dalla Corte d’Appello di Addis Abeba del 31 gennaio 1939:
“Non si verifica madamato nel caso di un nazionale che, assunta come domestica una donna indigena, se ne serva sessualmente, giacendo con lei tutte le volte che ne senta il bisogno, ma dopo quaranta giorni circa, in rispetto ai i doveri razziali di ogni buon italiano, si disfa della donna”
Dunque, per il regime fascista l’aumento delle violenze sessuali verso le donne locali fu un effetto collaterale tollerabile, dal momento che l’unico prioritario obiettivo fu mantenere integra la purezza della razza.
“Le moralizzatrici dell’impero”
In un secondo momento, il Regime incentivò le donne italiane a raggiungere i propri mariti nelle colonie, per limitare il rischio di “eventuali accoppiamenti con donne indigene e la conseguente nefasta procreazione di meticci”. Fu così che, già nel marzo 1938, circa 4.124 mogli si trasferirono in Africa con il compito, secondo l’ideologia fascista, di contribuire alla conservazione della razza. In seguito, con l’arrivo del Duca d’Aosta e consorte, ad Adis Abeba si organizzarono numerosi eventi mondani e, inoltre, aprirono molte scuole e studi professionali per Italiani. Inizialmente il Regime ambì a trasferire almeno un milione di donne nelle colonie, tuttavia non si superarono mai le 10.000 unità.
Le case di tolleranza
Per favorire la separazione razziale, il Fascismo promosse l’istituzione di bordelli con sole donne di razza bianca. Sebbene si fosse cercato in tutti i modi di reclutare prostitute italiane, prelevando anche di forza molte donne dai bassifondi delle nostre città, il Regime non raggiunse i suoi obiettivi. Infatti, la maggior parte sposavano poi i coloni italiani, lasciando presto i bordelli, nei quali fecero infine ingresso le donne africane.
Tuttavia, in poco tempo le case di tolleranza divennero delle fonti di malattie veneree, viste le condizioni in cui si trovavano le stanze e le prostitute, sicché la stessa amministrazione si preoccupò di garantire alle donne un controllo medico, per prevenire la salute degli uomini. Purtroppo, non mancò anche in questo settore una forte speculazione da parte di funzionari che chiedevano soldi alle prostitute per tacere sulle loro condizioni di salute. Infatti, in quegli anni la sifilide era un’infezione estremamente diffusa.
Dopo il Regio Decreto Legislativo numero 880
Dal 1937 gli stessi amministratori delle colonie italiane presero diversi provvedimenti a tutela della razza. Ad esempio, in Eritrea il governatore, Vincenzo De Feo, vietò la coabitazione tra Italiani e autoctoni nello stesso quartiere. Invece, in Somalia la normativa impediva ai coloni di entrare negli esercizi commerciali gestiti dagli Africani.
Il 29 giugno 1939, il Regime promulgò la Legge 1004, che individuava il reato di “Lesione del prestigio di razza”, ovvero: “Si intende lesivo del prestigio della razza italiana l’atto del nativo diretto ad offendere il cittadino nella sua qualità di appartenente alla razza italiana o, comunque, in odio alla razza italiana”.
E ancora, la Legge numero 882 del 13 maggio 1940 tolse ogni speranza ai meticci di rivendicare diritti. Infatti, essa stabiliva che i figli di razza mista potevano essere riconosciuti solo dal genitore africano, il quale doveva provvedere da solo al mantenimento e all’educazione del figlio.
La mancanza di una Norimberga italiana portò presto anche ad una consolatoria
autoassoluzione popolare. Se nessuno condannava nessuno, allora significava che non c’era nulla di veramente condannabile.
Troppo a lungo la realtà sul colonialismo italiano è stata volutamente taciuta sotto un velo di omertà, che ancora oggi nasconde atrocità, di cui si conosce e parla poco. Troppo poco. Dalle discriminazioni razziali alle violenze sulle donne, anche l’Italia ha scritto pagine tristi nella sua breve parentesi africana e forse ancora non ne ha preso piena consapevolezza.
Vittima in parte di una tendenza piuttosto generalizzata a nascondere, soprattutto in passato, l’Italia di oggi però sa. Verità scomode, talvolta ancora rinnegate da un’imbarazzante resistenza ideologica, che cerca in ogni modo di promuovere un’immagine positiva del colonialismo italiano.
Un silenzio assordante e pericoloso in una società che ancora combatte quotidianamente la discriminazione razziale e la violenza di genere. Un silenzio sul quale tutti dovrebbero interrogarsi e soprattutto cercare risposte, affinché gli errori di ieri non diventino mai una fonte d’ispirazione.
Conoscere il passato è un’arma molto potente contro la regressione sociale e culturale. E forse per questo le ore di storia in classe non dovrebbero essere un interminabile elenco di date, ma piuttosto uno stimolo a chiedersi perché.
Le domande costringono a pensare, le date no.
Carolina Salomoni