De vulgari eloquentia: quella volta che Dante inventò l’italiano

De vulgari eloquentia

Possiamo individuare una data per la nascita della lingua italiana? Forse sì, grazie a Dante. Ma stavolta la Commedia non c’entra

L’italiano, si sa, vive un’ininterrotta fase di sviluppo datata oramai di migliaia d’anni. Passando attraverso la colonizzazione greca, i carmina catulliani e il Concilio di Tours, nel 2021 vantiamo una lingua varia e storicamente ricca. Possiamo quindi ricercare una data precisa da associare all’invenzione dell’italiano? Non esattamente. Eppure, Dante ci provò, a suo modo, scrivendo una delle opere più celebri per la linguistica italiana. E stavolta il grandioso passo “Nel mezzo del cammin di nostra vita/…” non c’entra: si tratta del De vulgari eloquentia.

Opera di un esilio

Scritta tra il 1303 e il 1305, l’opera risale ai primi anni dell’esilio di Dante. Cacciato da Firenze a seguito di una condanna per corruzione, il poeta trascorse quegli anni in Toscana e successivamente in varie corti del Nord Italia. Ebbe modo di iniziare la stesura in volgare dei trattati che sarebbero andati a formare il Convivio, contemporaneamente si dedicò alla scrittura di una seconda opera, stavolta in latino. Nacque così la prima riflessione sulla situazione linguistica italiana.




Alla ricerca del volgare illustre

Dante compose il De vulgari eloquentia  (“L’eloquenza in lingua volgare”) in due libri: nel primo, la storia della lingua. L’autore fondò le origini dell’espressione orale nell’ebraico, dono divino, che sarebbe stato poi accompagnato da lingue diverse introdotte per punire la tracotanza umana. A suo parere nessuna delle quattordici varietà dialettali che egli stesso identificò nella penisola (che ricordiamo ben lungi dall’essere unita) era all’altezza del ruolo del volgare illustre, ovvero la lingua adatta a un’opera di stile elevato. Dante suggeriva così ai dotti del tempo di accantonare l’utilizzo del latino per una nuova, nobile lingua. Ma quali caratteristiche doveva avere questo vulgaris illustris?

Il poeta rispose così:

Possiamo definire illustre, cardinale, aulico e curiale quel volgare italiano che appartiene a ogni città d’Italia senza che in nessuna di esse lo si ritrovi, e sulla base del quale tutti i volgari municipali degli Italiani sono misurabili, valutabili e confrontabili.

Illustre, cioè adatto a uno stile elevato e, in accezione etimologica, capace di illuminare la ragione. Cardinale, perché cardine e punto di riferimento delle lingue locali. Aulico, cioè simile alla lingua parlata presso l’aula, la corte regia. Infine curiale, ovvero basato su criteri di ragione e misura proprio come conveniva nella curia, luogo di amministrazione della giustizia. Questi gli obiettivi che Dante Alighieri poneva a fondamenta della nascita di una lingua unitaria che rendesse onore al popolo italiano.

E il volgare del quale sto parlando è sublime per capacità educativa e potere, e innalza i suoi in onore e gloria.

Nel secondo libro, invece, un trattato di retorica e stilistica: Dante presenta una vera e propria gerarchia di stili, ma il suo studio verrà interrotto e l’opera giungerà a noi incompleta.

Il De vulgari eloquentia nel 2021

Chissà se Dante, a conoscenza dell’italiano attuale, riterrebbe o meno di aver raggiunto gli obiettivi prefissati. Certo è che i nostri dialetti differiscono da quelli che aveva studiato il poeta a suo tempo, e che l’evoluzione della lingua non si è affatto fermata.

E soprattutto chissà se noi, odierni italiani, riusciremo a rendere omaggio agli studi che il poeta affrontò per la prima volta in assoluto ben settecento anni fa.

Katherina Ricchi

 

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