Ci meritiamo un “De Luca”. Ci meritiamo uno che con le parole si concede il lusso di strafare, senza chiedere il permesso. Uno che fa dell’irriverenza, del disprezzo delle regole, del machismo condito di vernacolo nazionalpopolare, la cifra caratteristica del proprio stile.
Ce lo meritiamo perché ci piace. Poco importi se sia un caloroso invito ad “andà a mori ammazzato” o etichettare la presidente della commissione parlamentare antimafia come “un imbecille da uccidere”. Oppure ancora uno che ci dica che “l’anticorruzione blocca l’Italia”, nel Paese allineato a quelli africani per tasso di corruzione. Il filo conduttore è sempre lo stesso: eccedere, far scendere a un livello così basso l’istituzionale fino a toccare la volgarità. Dimostrare a tutti i costi che si è “uguali” agli altri non nei termini della normalità della vita quotidiana ma nella grammatica delle bassezze e dell’istintività.
Chiamatelo Trump, chiamatelo De Luca, chiamatelo Vaffa Day. C’è sempre una morbosa attrazione da parte del cittadino che ascolta, di fronte al televisore o allo schermo di un Pc, facendo finta di scandalizzarsi o sostenendo i liberi sfoghi dei propri idoli. Il moralismo lascia il tempo che trova. Alla fine la tesi dell’outsider e quella del cittadino/utente ascoltatore si incontrano amorosamente. E così il cittadino lo giustifica dicendo: “alla fine non è quello che pensiamo tutti? Basta ipocrisie”. Oppure ancora, scambiare il voto al referendum con le risorse messe a disposizione dal governo per i Comuni campani o dalla Regione per gli ospedali. Che male c’è? Fanno tutti così, solo che non si dice. E da parte sua l’outsider, De Luca o Trump di turno, dice: “dico quello che pensano tutti i cittadini”. E tutto va bene, Madama la Marchesa. Se poi ha i pacchetti di voti a portata di mano, il cafone scalerà dal consiglio comunale a Palazzo Chigi bruciando le tappe.
Siamo una società fatta così. Che finge di scandalizzarsi, di stracciarsi le vesti e subito dopo trova la sua corrispondenza di amorosi sensi con chi sceglie di rompere un qualsivoglia tabù. Che siano tabù morali, verbali, rispetto di regole del codice civile o penale, o molto semplicemente quello che una volta era il “buon senso”. E’ bravo chi rompe gli schemi. Anche se sono schemi oggettivamente “buoni” che assicurano il giusto rispetto per se stessi e per gli altri. Se poi lo fa il politico o il rappresentante istituzionale, ma anche un qualsiasi personaggio pubblico, meglio ancora: se lo fa lui, lo possiamo fare tutti. Del resto, siamo il Paese in cui, mentre lo scandalo delle “olgettine” e della nipote di Mubarak con fatti nessi e connessi faceva tremare il mondo, mettendo l’Italia in una posizione scomodissima, qualcuno bisbigliava o anche scriveva sui giornali: a quale uomo, che sia veramente uomo, non piace andare a “femmine”.
Lasciateci solo un po’ di nostalgia, visto che oggi, dagli Stati Uniti all’Italia, la rincorsa alla volgarizzazione del dibattito politico ha sempre più una connotazione liberale e di destra. La destra dei valori, del senso dell’appartenenza e del rispetto delle regole, cede il posto a un grande festival dell’irriverenza fine a se stessa, fino a scadere sempre più in basso: nei toni, nei linguaggi, nelle idee.. Ma se non vogliamo dare connotazioni ideologiche, se non vogliamo sembrare bacchettoni, ci basti l’articolo 54 della Costituzione: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”
Con disciplina e onore. Che non sono contorni o elementi di coreografia, ma forma e sostanza della credibilità di chi rappresenta le istituzioni. Che non può dire, che non può lasciarsi andare pubblicamente ai bassi istinti. Chi rappresenta le istituzioni, per tante cose, non è, Costituzione alla mano, uno come gli altri.
Salvatore D’Elia