Il De amicitia di Cicerone ci offre una prospettiva inedita sull’amicizia. Contrariamente a quanto pensiamo, questa relazione non è sempre una faccenda privata: da essa – e dall’etica degli amici – può dipendere il destino dello Stato.
De amicitia: un dialogo sull’affinità tra gli uomini migliori
Il dialogo De amicitia, composto da Cicerone nel 44 a.C. per l’amico Attico, è anzitutto uno straordinario arazzo. Esso, infatti, ritrae la trama di rapporti che legavano tra loro gli uomini più potenti nell’ultimo secolo della Repubblica. Nella finzione ciceroniana è l’ex console Gaio Lelio a chiarire cosa sia l’amicizia. Egli, infatti, aveva condiviso con Scipione Emiliano un’amicizia leggendaria per la profondità dell’affetto che li legava. Interlocutori di Lelio sono i generi, Gaio Fannio e l’augure Quinto Mucio. Proprio da quest’ultimo, in giovane età, Cicerone avrebbe ascoltato il racconto di quella conversazione sull’amicizia avvenuta nel 129 a.C. Imparando per la vita come si configuri la relazione possibile soltanto tra gli uomini migliori.
Un bene irrinunciabile, ma per pochi
Riprendendo il pensiero di Aristotele, Lelio afferma che l’amicizia è un bene imprescindibile per gli umani. Questi, infatti, per natura sono socievoli: contemplare l’intero universo sarebbe per loro senza gioia, se non potessero condividerne la meraviglia con un simile. Eppure, la vera amicizia è un bene raro. Perché? Perché può nascere e durare soltanto tra uomini per bene. Uomini straordinari per integrità, generosità, fermezza. Il genere di uomini più difficile da incontrare. A questo proposito, Cicerone nota:
molti pretendono di avere amici come loro stessi non sanno essere e chiedono agli amici quello che loro stessi non darebbero. Invece, sarebbe il caso prima di essere persone a modo, poi di cercare altri simili a sé.
Come nasce la vera amicizia…
Secondo Cicerone, l’amicizia autentica nasce per l’ammirazione che si prova nei confronti della virtù altrui. Naturalmente portati alla socievolezza, se siamo uomini di valore ci conquista il valore che vediamo in un altro. Tanto che desideriamo meritarci la sua stima e il suo affetto compiendo azioni lodevoli. Se ne traiamo un beneficio, questo è un accessorio della relazione, non il suo scopo. Per questo sono i saggi e i virtuosi gli unici capaci di un’amicizia sincera. Essi, infatti, non cercano vantaggi per sfuggire alle difficoltà, perché hanno fiducia in sé e si sanno responsabili di tutte le proprie risorse.
… e come muore
Le amicizie comuni nascono per caso. E in modo altrettanto estemporaneo possono morire. Alcune, nate da bambini o da ragazzi, si estinguono semplicemente perché crescendo si prendono direzioni diverse. Quelle giovanili e della prima età adulta possono essere sconfitte dalla competizione per l’amore o per il successo. Nella maturità, infine, possono essere divergenze inconciliabili a concludere le amicizie. Tuttavia, le amicizie autentiche tendono a durare, stabili nel tempo. Esse rischiano di crollare solo quando uno dei due amici chiede all’altro di commettere qualcosa di illecito.
Il giusto limite dell’amicizia
Secondo Lelio, la prima legge dell’amicizia è:
all’amico si devono chiedere solo cose giuste, per l’amico solo cose giuste vanno fatte.
Rispettare questa norma con rigore consente di poter essere davvero d’aiuto agli amici in ogni circostanza. Essa, infatti, conferisce a chi la rispetta l’autorità morale necessaria per poter consigliare gli amici e, se opportuno, rimproverarli severamente. Salvando così la loro reputazione, i loro beni, qualche volta persino la loro vita. Il vero amico, in questa prospettiva, non è chi asseconda l’altro in tutto. È chi si espone pur di evitare che l’amico sia causa del suo stesso male. Se questo, però, si rifiuta di ascoltare e, anzi, persiste, è giusto prenderne le distanze. Il suo comportamento stesso, infatti, dimostra che non ha realmente a cuore il bene di chi vorrebbe aiutarlo.
Amicizia: una faccenda privata?
Il tipo di relazione descritto nel De amicitia si discosta molto dall’amicizia come di solito la intendiamo. In particolare, oggi ci stupisce la severità dei vincoli morali che Cicerone impone all’amicizia. Molti di noi per gli amici farebbero qualunque cosa, sapendo gli amici pronti a fare lo stesso. Quasi tutti, del resto, siamo pronti a giudicare in modo mite una colpa – anche grave – commessa da un amico. Il fatto, però, è che l’amicizia come Cicerone la intendeva non è una faccenda privata. Per Cicerone la vera amicizia, quella che lega gli uomini migliori, è anzitutto una virtù civile.
Il bene che conserva la salute dello Stato
Gli uomini ritenuti migliori, nella Roma di Cicerone, sono i più potenti. Quelli che si sono distinti nella vita pubblica e militare della città, quelli che hanno o hanno avuto una brillante carriera politica. Questi uomini, perlopiù appartenenti a famiglie illustri, si conoscono bene. Fanno parte dell’élite di una Repubblica che, quando il De amicitia viene composto, si avvia al termine tra colpi di mano spregiudicati. In questo contesto, Cicerone lancia un monito che oggi non risulta inattuale. Chiede di coltivare le relazioni in vista del bene, non solo dell’utile. E di ricordare che ogni rapporto privato è situato nel contesto di una collettività per la quale si è responsabili. Essere persone per bene e buoni amici, pertanto, non comporta soltanto aiutare gli amici a esercitare i loro diritti. Richiede, cosa più difficile, di spingerli a rispondere ai propri doveri come membri della comunità.
Valeria Meazza