Cowboy, ambientalista, scrittore: Dayton Ogden Hyde ha speso un’intera vita a contatto coi cavalli, impegnandosi attivamente nella difesa di quelli selvaggi in Nord America. Frutto del suo lavoro è stata la fondazione del Black Hills Wild Horse Sanctuary, una riserva che ospita e protegge centinaia di esemplari preservandone l’ecosistema. Qual è la storia di quest’uomo e del suo sogno?
Da bambino, Dayton Ogden Hyde aveva un sogno: diventare un cowboy. Lo divenne, come racconta in molte pubblicazioni e nel film-documentario Running Wild, a 13 anni, ben prima di imparare a montare a cavallo. Infatti, aveva lasciato la sua casa di Marquette, nel Michigan, per raggiungere uno zio in Oregon, a oltre 3500 km, e lavorare nel suo ranch. Non aveva un soldo in tasca, né vestiti di ricambio, né alcuna esperienza del mondo. Ma quando vide una mandria di cavalli selvaggi attraversare il fiume sulla proprietà dello zio, seppe istantaneamente di essere a casa. Era la prima volta che mollava tutto per inseguire la vocazione di una vita; non sarebbe stata, però, l’ultima.
Proprietario di un grande ranch a Yamsi, nell’Oregon, nel 1987 Dayton Ogden Hyde poteva dirsi un uomo realizzato, felice. Che poteva volere di più? Eppure, in quell’anno la sua vocazione lo avrebbe chiamato a una nuova svolta.
Durante un viaggio in Nevada per acquistare del bestiame, Dayton Ogden Hyde e i suoi figli assistettero a uno spettacolo straordinario. In una nuvola di polvere alta come un palazzo, una mandria di mustang selvaggi galoppava incalzata da un elicottero che, sorvolandola, ne indirizzava i movimenti. Seguendo il percorso degli animali terrorizzati, gli Hyde scoprirono che terminava in recinti nei quali i cavalli venivano stipati a forza da alcuni uomini. I migliori sarebbero stati domati e venduti, mentre una gran parte sarebbe stata macellata o semplicemente abbattuta. Tale procedura rientrava tra le misure del Governo Federale per far fronte al problema della presenza di animali selvatici sui terreni degli allevatori di bestiame. I cavalli allo stato brado, infatti, in quell’area venivano percepiti come una specie infestante. Dayton Ogden Hyde rimase profondamente colpito dalla brutalità di quella soluzione. In un’intervista durante la realizzazione del documentario, infatti, avrebbe dichiarato:
Ammassati dentro i recinti, quei mustang avevano un’aria miserabile. Divorati dalle mosche, finivano per ferirsi gli uni con gli altri nel tentativo di scappare. Era una scena che gridava vendetta. Guardandoli seppi di non poter restare uno spettatore passivo. E avevo la sensazione di essere la persona giusta per riuscire a fare qualcosa.
Del resto, Hyde aveva sempre avuto le idee molto chiare sul ruolo dell’essere umano nel mondo. Nonché dei suoi doveri verso le altre forme di vita:
Ho sempre pensato che l’uomo non abbia il dominio della natura, come invece affermano certe religioni e certi modi di pensare. Piuttosto, secondo me, l’uomo ne ha la responsabilità. Siamo responsabili del prenderci cura di tutti gli altri compagni di viaggio che abbiamo su questa Terra.
Senza traccia di presunzione, in Running Wild il cowboy diceva di sé: «sono sempre stato un tipo ostinato e pieno di spirito d’iniziativa. Quando un’idea mi frulla in mente, io vado e la realizzo. Al diavolo le circostanze: quelle si possono sempre aggiustare».
In effetti, andò così anche per la creazione della riserva. Assistendo allo spettacolo della cattura dei cavalli selvaggi in Nevada, Dayton Ogden Hyde aveva immediatamente compreso che doveva esserci un altro modo. Il problema, intuiva, poteva essere risolto attraverso la conoscenza profonda delle abitudini degli animali e delle loro necessità. Ad esempio, recintando adeguatamente porzioni di terreni inutilizzati in cui la loro libertà non avrebbe danneggiato gli interessi degli allevatori.
Così, a sessant’anni suonati, chiese ai propri familiari di prendersi cura di Yamsi e partì subito per Washington, per rivolgersi direttamente al Congresso. Per quattro mesi, senza mai perdersi d’animo il cowboy incontrò senatori, deputati e membri delle istituzioni per trovare alleati nella realizzazione del suo progetto. Alla fine, il suo disegno trovò ascolto presso George Mickelson, allora Governatore del South Dakota. Mickelson invitò Dayton Ogden Hyde a visitare il Chilson Canyon nelle Southern Black Hills. Quella terra, grazie a un accordo con il Bureau of Land Management e la South Dakota Community Foundation, sarebbe diventata il santuario dei cavalli selvaggi. Nonché la sede dell’IRAM (Institute of Range and the American Mustang), fondato da Hyde per approfondire la conoscenza dei cavalli e del loro ecosistema. Affinché lo studio e la ricerca di modalità innovative e responsabili di convivenza garantissero il non ripetersi di brutalità come quelle verificatesi in Nevada.
«Ciascuno può fare qualcosa di grande per preservare la bellezza del mondo. Se ci è riuscito un vecchio cowboy, perché non dovrebbero riuscirci tutti gli altri?».
Questo domandava spesso Dayton Ogden Hyde a chi andava a visitare la riserva, passeggiando o cavalcando con lui lungo le creste delle Southern Black Hills. Quando giocava coi puledri o osservava la mandria correre al tramonto, sembrava quasi – secondo i suoi collaboratori – un altro cavallo felice in mezzo a tanti. Ma le parole di conoscenza e amore verso questi animali, così come il suo impegno, restano una straordinaria testimonianza dell’umanità – quella migliore – di questo cowboy.
Valeria Meazza