«Credo che la Gran Bretagna potrebbe trarre beneficio da un leader fascista». Non sono le parole di un filonazista, o almeno così ci piace pensare. Sono quelle di uno dei musicisti più influenti del XX secolo. David Robert Jones, meglio conosciuto come David Bowie visse, nel 1976, un periodo travagliato che lo portò, forse, a spingersi in gesti e affermazioni sicuramente discutibili.
La carriera di David Bowie ha inizio quando, a 15 anni, suo fratello gli regala un manuale di didattica musicale. Nel 1963, Bowie suona il sax in un gruppo rhythm and blues londinese e, successivamente, fonda una band semiprofessionista di progressive blues, chiamata “David Jones and The Lower Third” (nel 1966, quando Davy Jones dei Monees diventa famoso, cambia il proprio nome in David Bowie). Incide il primo disco nel 1964, vivendo per tre anni nel giro dei piccoli gruppi R&B. La svolta, però, arriva con il singolo “Space Oddity”, storia del viaggio spaziale di Major Tom contornata da un alone di mistero e, nel 1971, con l’album “Hunky dory”, che arriva al quinto posto nelle classifiche della Gran Bretagna, prende ufficialmente il via la sua straordinaria carriera. Al di là del suo grandissimo successo, che tutti conosciamo, ciò su cui vorrei soffermarmi in questa riflessione riguarda la forte personalità che ha accompagnato la sua carriera, e che può dare, forse, una chiave di lettura utile a comprendere la portata di alcune sue infelicissime affermazioni.
David Bowie si è sicuramente distinto per una personalità fortemente carismatica, poliedrica, trasformista e provocatoria. Basti pensare a come, nel 1972, dichiarò di essere gay, aprendo le porte ai coming-out veri o presunti di tutta la scena glam-rock. Giocò, per fare questo, su una sottile ma, allo stesso tempo, marcata ambiguità che è ben rappresentata nel libro “Sono l’uomo delle stelle. Vita, arte e leggenda dell’ultima icona pop”, che raccoglie le interviste rilasciate nel corso di 35 anni di carriera, insieme a fondamentali contributi critici apparsi sulle maggiori riviste musicali inglesi e americane:
L’immagine con cui si presenta attualmente Bowie è quella di un ragazzo deliziosamente effeminato, una checca smancerosa. É smaccatamente camp, con la sua mano floscia e la sua parlata cantilenante. «Sono gay» – dice – «e lo sono sempre stato, anche quando ero David Jones». Ma nel pronunciare queste parole sfodera un’espressione maliziosa e divertita, e accenna un sorriso agli angoli della bocca. Sa bene che al giorno d’oggi è concesso atteggiarsi da checca e che, essendo un cantante pop, è quasi tenuto a scioccare e a creare scandalo.
Ancora, sappiamo dell’uso che Bowie faceva della teatralità e dell’artificio, mescolando abilmente influenze musicali, visive e narrative molto diverse:
In Bowie si riscontra un certo talento per la parodia, la cui origine sta senz’altro nella sua vocazione per il teatro. Sostiene di essere più un attore, un uomo di spettacolo che un musicista; anzi, forse non è nient’altro che un attore: «All’interno di questa armatura indistruttibile potrebbe esserci un uomo invisibile». «Mi prendi in giro?» -«Niente affatto. Non trovo la vita molto interessante. Mi vedrei magari bene come spirito astrale».
Questa breve introduzione può, forse, dare un’idea, sicuramente non esaustiva, della personalità di Bowie, che potremmo definire straripante, mai banale, caleidoscopica. Un provocatore, sicuramente, anticipatore di tendenze future, androgino e ambiguo prima che tutti scoprissero l’arte del travestimento. Trasgressivo e sregolato era Bowie, ma non privo di rispetto e considerazione nei confronti di temi importanti. Come si spiegano, allora, le affermazioni a cui si faceva riferimento all’inizio di questo articolo? Approfondiamo l’accaduto.
Il 27 aprile 1976 David Bowie, dopo un breve viaggio in Unione Sovietica, torna a casa, attraversando in treno la frontiera tra l’URSS e la Polonia. Quando il treno arriva al posto di frontiera con la Polonia, un’attenta perquisizione dei suoi bagagli rivela, tra gli indumenti e gli oggetti personali, la presenza di un’intera collezione di libri nazisti. In particolare, libri scritti da Joseph Paul Goebbels e Albert Speer, l’architetto personale di Hitler. Il cantante tenta di opporsi sostenendo che quei libri servono soltanto come documentazione su un film per Goebbels ma, essendo illegali e fuorilegge non solo in Unione Sovietica, ma anche nel suo Paese e in quasi tutta l’Europa occidentale, vengono sequestrati, tra il disappunto di Bowie, che perde il controllo inveendo contro la polizia:
Comunisti di merda! Io sono un cittadino britannico, non un russo! Voi non mi potete sequestrare niente! Voglio l’intervento della mia ambasciata!
Il consolato britannico, messo al corrente dell’accaduto, fa sapere che il sequestro di pubblicazioni naziste non rientra nelle sue competenze. É in questo contesto che il cantante, risalendo sul treno, avrebbe affermato: «La Gran Bretagna trarrebbe beneficio dall’avvento di un leader fascista». Affermazioni forti, forse dettate dalla rabbia, ma che non rimasero, giustamente, ignorate, portando i giornali a definirlo come un uomo ossessionato dal nazismo. Ancora, a Playboy racconta che: «Hitler è stato la prima grande rockstar e il nazionalsocialismo una splendida iniezione di morale». Un po’ di tempo dopo, rinsavito da quelle orripilanti dichiarazioni, affermerà:
Le mie dichiarazioni non sono mai un fatto politico, ma teatrale. Se ho detto qualcosa del genere, mi riferivo all’assurdo stato di apatia culturale in cui versa l’Inghilterra.
Quando tornò in Inghilterra, dopo quello spiacevole episodio al confine, Bowie fece nuovamente scalpore durante il suo ingresso a Victoria Station. Divenne emblematica, infatti, la fotografia che raffigurava Bowie intento a fare il saluto nazista, accompagnato dall’espressione “Heil, Hitler!”. Un gesto, ancora una volta, destabilizzante, forse ancora una volta provocatorio ma ingiustificabile, che comunque il cantante spiegò affermando che quell’istantanea raffigurava, in realtà, un singolo momento estrapolato da un gesto più complesso.
Difficile giustificare, tantomeno perdonare, frasi di una simile gravità. Sicuramente, ciò che possiamo constatare è che il 1976 fu un anno davvero turbolento per Bowie, avvolto nella dipendenza da cocaina, immedesimato nell’anima artistica di Thin White Duke e, appunto, ingabbiato in una serie di affermazioni e gesti controversi. Forse la teatralità di Bowie, la sua arte incentrata sulla catalizzazione scenografica e performativa, potrebbe spiegare questa serie di assurdi “scivoloni”, se così possiamo definirli. Non c’è modo di sapere con esattezza ciò che spinse un artista come Bowie, sempre restio a rendere veramente esplicita la sua essenza, a esprimere quelle discutibili idee. La sua arte si è costantemente costruita dietro una maschera, o meglio una collezione di maschere fluide e in continua trasformazione. Quella del filonazista potrebbe, forse, essere una di quelle provocatorie maschere? Il musicista affermò di non ricordare quasi nulla di quel 1976 così controverso, lasciando a noi il dubbio di una libertà espressiva che si muove tra fili incerti e dichiaratamente teatranti.
Roberta Mazzuca