Ho vist un villan.
Sa l’ha vist cus’e`?
Un contadino!
Ah, beh; sì, beh.
Il vescovo, il re, il ricco, l’imperatore,
persino il cardinale, l’han mezzo rovinato
gli han portato via:
la casa
il cascinale
la mucca
il violino
la scatola di kaki
la radio a transistor
i dischi di Little Tony
la moglie!
E po’, cus’è?
Un figlio militare
gli hanno ammazzato anche il maiale…
Pover purscel!
Nel senso del maiale…
Ah, beh; sì, beh.
Ma lui no, lui non piangeva, anzi: ridacchiava!
Ah! Ah! Ah!
Ma sa l’è, matt?
No!
Il fatto è che noi villan…
Noi villan…
E sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam,
e sempre allegri bisogna stare
“Ho visto un re”
di Dario Fo
Ridere alla vita, alle avversità. Ridere in faccia ai re e ai cardinali perché non si hanno scuse per piangere. Il pianto è un capriccio che solo i materialisti possono permettersi, commemorando condizioni privilegiate vane e superflue perdute. Ridere è un dono e un’arma che solo pochi comprendono. Chi ride possiede la più grande delle ricchezze. Una certezza che nessuno potrà toglierli, la gioia nel vivere.
Dario Fo aveva compreso questo dono e sapeva usarlo. Un uomo, un attore, un drammaturgo e un pittore che non ha mai smesso di affacciarsi alla vita con il sorriso. Durante la sua vita, è stato ferito e censurato, in molti modi e da diversi poteri. Ha vissuto sulla pelle dei suoi cari tutti i tipi di coercizione, come la violenza sessuale per ragioni politiche che ha subito l’attrice e drammaturga Franca Rame, sua moglie e amore della sua vita. Non ha però perso il suo bellissimo sorriso.
Si! fu censurato perché in Italia era il precursore di un nuovo tipo di messaggio che fuoriusciva irrefrenabile dai teatri, chiamato teatro di narrazione. Lui aveva tolto la velatura da intrattenimento borghese al teatro. Lo aveva rivestito di un rinnovato seppur antico ruolo, quello di collante e coscienza sociale.
La sua era un’indagine sociale e politica, il suo linguaggio stilistico era la satira, questi due capi saldi erano le colonne portanti della sua narrazione. Una narrazione che rivoluzionò il linguaggio teatrale con delle modifiche stilistiche dettate dalla volontà di trasmettere un messaggio chiaro, non selettivo, comprensibile e vicino a tutti, perché tutti erano parte del suo popolo, un popolo che lui voleva parte attiva di ogni opera.
La sua grande capacità comunicativa gli dava la possibilità di coinvolgere un vastissimo pubblico, per questo, durante la sua vita, Dario Fo è stato un uomo scomodo a tanti ma di ispirazione a molti più di quei tanti. Nel 1962 fu mandato via dal programma Canzonissima. Parlando delle morti sul lavoro intoppò con la fragilissima insensibilità della televisione, ma questo non depotenziò la sua carica artistica e vitale. Al contrario, così facendo riscoprì il teatro, quello lontano dai palchi dalle istituzioni. Il Dario Fo degli anni sessanta lo potevi trovare nelle piazze, nelle fabbriche e negli edifici abbandonati. Dario Fo, sostenuto da altri artisti, fu portavoce e animatore di quel animo contestatore che, come ricorda lui stesso, considerava la cultura istituzionalizzata come:
«[…] un fatto sovrastrutturale, secondario … il teatro deve essere al servizio di un discorso politico corretto»
Idee che negli anni ha rafforzato e perseguito attraverso il suo teatro e la sua letteratura.
Nel 1997 Dario Fo ricevette il Premio Nobel per la letteratura. Nonostante questo, in Italia le sue opere e quelle di Franca Rame continuavano a essere censurate. D’altronde, come afferma lui stesso durante una intervista:
«un musico, un poeta e un clown deve sempre dare fastidio al potere altrimenti vuol dire che non valgono niente»
Dario Fo era, artisticamente parlando, ambidestro. Il rovescio del suo spartito artistico era la pittura e il disegno, passione e talento che non ha mai abbandonato. Si iscrisse giovanissimo all’Accademia di Belle Arti di Brera. La sua bravura nel disegno fu notata da una compagnia teatrale che lo invitò a disegnare e a costruire una scenografia per uno spettacolo. Questo fu il suo primo incontro con il teatro, che negli anni divenne la linfa con cui alimentò la sua arte. L’unione di teatro e pittura non fu mai abbandonato durante tutto il suo percorso umano e artistico.
L’arte raffigurativa fu un potente mezzo di espressione delle sue idee e di comunicazione con i suoi interlocutori, tanto quanto la scrittura. Le illustrazioni che realizzava gli servivano a rivelare le sfumature delle sue storie, i colori dei suoi personaggi, anche per illustrarli agli attori che li interpretavano a teatro, o per dare forma ai personaggi dei suoi racconti.
Dario Fo è stato e continuerà a essere un Maestro, un Mentore per noi italiani. Un Maestro non solo nel teatro ma anche nella vita, per la sua forza e il suo splendido umore, per il suo spirito impregnato di positivismo e lucidità intellettuale. Qualità che rarissimamente coesistono nello stesso uomo. Uomo che le ha coltivate e custodite in se fino a novant’anni. Dario Fo credeva negli altri, ma sopratutto credeva che i più emarginati e deboli fossero in realtà i più utili e validi, per questo si fece portavoce di quelle parti del popolo a cui mancava la pubblica parola, gli orfani della società in lui hanno trovato un padre.
Nel 2004, durante una fresca serata settembrina, dopo aver tenuto il suo spettacolo Mistero Buffo a Siracusa io l’aspettavo fuori dal teatro. Lì fuori, durante l’attesa, sognavo di parlare con lui. Quando finalmente uscì, mi vide lì e mi venne incontro senza esitazione, stanco ma sempre disponibile e sorridente. Ero poco più di una bambina allora, ma lo ricordo. Lo ricordo alto, grandioso, dallo sguardo intenso e confortante, dal sorriso buono e dolce, con il suo bellissimo panama bianco.
Fonte: http://vivimilano.corriere.it/
Giulia Saya