D’Annunzio mondano: Spazio 18b restituisce l’atmosfera raffinata dei salotti romani di tardo Ottocento

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Di Adriano Ercolani 


Il teatro Spazio 18b, alla Garbatella, a pochi metri dal palazzo della Regione (o se preferite dal celebre luogo di lavoro di Fantozzi), offre uno dei programmi più interessanti al momento nella Capitale.

Dopo la bella sorpresa di Chet!, dedicato a Chet Baker, La Compagnia dei Masnadieri porta in scena D’Annunzio mondano, per la regia di Jacopo Bezzi.

Lo spettacolo è scritto da Maricla Boggio, sapiente autrice della quale è in scena fino al 10 Febbraio lo stupendo Il Sogno di Nietzsche al Teatro delle Stanze Segrete.

Tra i due spettacoli ci sono le stesse proporzioni che sussistono fra il grande filosofo e il suo emulo italiano: il primo è vertiginoso, geniale, abissale; il secondo è brillante ma superficiale, elegante ma vano.

Del resto, lo spettacolo è proprio ispirato al primo D’Annunzio, il giovinetto che tra il 1884 e il 1888 scriveva su Capitan Fracassa e sulla Tribuna, con gli pseudonimi di “Il Duca Minimo” e “Lila Biscuit”, delle cronache divertite e pruriginose, tra il pettegolezzo e la trasfigurazione letteraria.

Dunque, si prova a restituire l’atmosfera languida e raffinata dei salotti romani di tardo Ottocento, tra aristocratici decadenti, vedove allegre e giovani amanti squattrinati.

Lo spettacolo è gradevole, si sorride molto, i tempi sono lenti, le scene colme di pose enfatiche, corteggiamenti eleganti quanto insistenti, equivoci esilaranti ma castigati.

Certo, non si restituisce il fascino sensuale e irresistibile del Vate, il quale appare un arguto testimone delle vicende, raccontate come una serie di tableau vivant.

https://youtu.be/sXWOJ1D44Mw

Massimo Roberto Beato, pur nella somiglianza fisica, come aplomb sardonico ricorda più Flaiano che D’Annunzio (del resto, erano conterranei), ma per una chiara scelta interpretativa; Elisa Rocca è senza dubbio divertente (con dei richiami credo non casuali a Anna Marchesini); Alberto Melone e Sofia Chiappini giocano ironicamente nella parodia vivace dei corteggiamenti d’antan.

La regia più che sui movimenti dinamici in scena punta a evocare le atmosfere umbertine, sospese tra vizio e pudore, anche grazie alle musiche d’epoca (il grammofono in scena ritma l’avvicendarsi delle storie).

Non aspettatevi le altezze sublimi raggiunte da Carmelo Bene mentre recitava La Figlia di Iorio, ma, se desiderate passare un’ora spensierata immersi in un mondo di parole mordaci e gesti ammicanti, questo è lo spettacolo per voi.

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