Con un bambino il Dalai Lama sfida nuovamente la Cina

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Il Tibet per secoli ha avuto difficili rapporti con la vicina Cina. Oggi è una regione autonoma all’interno della Repubblica Popolare. Un sorvegliato speciale, a causa dei suoi forti legami con il clero buddhista in esilio. Pechino e Dalai Lama, alla luce della nomina di un bambino nato negli Stati Uniti a terza carica del clero buddhista, aumentano ancora di più le distanze reciproche.

La nascita del Tibet

Le origini tibetane sono incerte. Anticamente terra di pastori nomadi provenienti dall’Asia centrale, è solo all’inizio del VII secolo d. C. che cominciano a comparire le prime documentazioni scritte sulle popolazioni che la vivono. Nel 608 d. C., infatti, il XXXIII sovrano della dinastia Yarlung, Songsten Gampo, unifica tutti i territori dell’Altopiano del Thibet, porta la capitale nella città di Lhasa e segna la nascità della nazione tibetana. Uno dei successori di Songsten, l’Imperatore Trisong Detsen, nella seconda metà dell’VIII secolo rende il buddhismo la religione di stato, a discapito della tradizionale religione sciamanica Bön. Tuttavia, in questo stato embrionale del Buddhismo Tibetano non esiste ancora la figura del Dalai Lama.

Questa scelta porta, alcuni decenni dopo, a lotte intestine tra esponenti delle due fedi, che segnano l’inizio della decadenza dell’Impero conosciuto come “terzo polo”. Seguono secoli di scissioni, politiche e religiose, ed ingerenze nella sovranità della regione da parte di mongoli e cinesi. Nel 1300 il Tibet sembra lentamente affrancarsi dal dominio straniero: a spingere l’emancipazione del Tibet è la religione buddhista, ormai la sola professata sull’altopiano. Alla fine del secolo, nel 1391, nasce Gedun Khapa: è considerato la reincarnazione di Avakitesvara. È lui il primo Dalai Lama.

L’epoca moderna

Comincia quindi un periodo di lotte intestine tra diverse fazioni del clero buddhista, fino a quando, nel 1720, il quinto Dalai Lama chiede l’intervento nel Paese alla dinastia imperiale cinese Quing. Le truppe cinesi consolidano il potere del lignaggio dei Lama, in cambio della grande influenza accordata ai Quing ed ai loro successori nella politica dell’Altopiano. Agli inizi del 1900 (nel pieno di quello che i cinesi chiamano il secolo dell’umiliazione, ovvero il più grande periodo di crisi nella storia dell’Impero del Centro) il Tibet diventa pedina nelle mani di inglesi e russi nel cosiddetto Grande Gioco dell’Asia. Diventato uno stato cuscinetto tra i due Imperi Coloniali europei, il Tibet conosce finalmente un certo grado di autodeterminazione, che mantiene fino al 1950.

Con la nascita della Repubblica Popolare di Mao Tse Tung, Pechino riprende nel 1950 possesso dei territori del Tibet, che diventa una regione autonoma. All’arrivo delle truppe maoiste la casta sacerdotale scappa in esilio ed il Dalai Lama trova rifugio in India, dove tutt’ora risiede. Oggi, come lo Xinjiang, anche il Tibet subisce violenti tentativi di sinizzazione da parte di Pechino, che cerca di assimilare la popolazione locale al ceppo dominante della Repubblica Popolare, l’etnia Han.



L’importanza del Tibet per la Cina

Il Tibet è sempre stato nel mirino della politica cinese, al di là delle dinastie e dei sistemi di governo. Ci sono stati periodi storici, anche particolarmente lunghi, in cui Pechino non ha esercitato il diretto controllo sull’altopiano, ma questo non è avvenuto per un cambio di traiettoria cinese verso la regione confinante. Piuttosto, ciò è stato a causa di periodi di debolezza cinese, o per l’intervento di potenze terze, ad esempio i mongoli.

L’interesse cinese per il vicino è atavico, e si spiega con la geografia asiatica. Il cuore di quella che è oggi la Repubblica Popolare, fino alle coste dell’Indo-Pacifico, è pianura. Un’immensa pianura, priva di ostacoli naturali e, in caso di invasione, praticamente impossibile da difendere nella sua interezza. Per secoli l’obbiettivo di qualsiasi élite cinese è stato quindi quello di controllare territori strategici che potessero essere utilizzati come “scudo corazzato” (parole utilizzate dall’attuale presidente Xi Jinping) per il resto del Paese.

Quello geografico è quindi il principale, forse l’unico, valore riconosciuto al Tibet dalle amministrazioni cinesi succedutesi nei secoli. L’immenso altopiano, con i suoi quasi 4000 metri di altitudine media, è una barriera naturale contro la seconda potenza demografica del pianeta, l’India. Non solo, in Tibet si trovano i ghiacciai da cui nascono i principali fiumi asiatici (Fiume Giallo, Fiume Azzurro, Indo, Mekkong, Brahmaputra, Irrawaddy, Salween e Sutlej). Il controllo di questi ghiacciai, di fatto, si traduce nel controllo dell’accesso all’acqua dolce di buona parte del continente.

Il rapporto cinese con il Dalai Lama

Come nel secolo scorso tra inglesi e russi, oggi il Tibet è un territorio cuscinetto tra India e Cina. Il valore acquisito dall’altopiano a causa di tale stato delle cose, lo rende un oggetto troppo importante perché Pechino possa permettersi la presenza di figure in grado di veicolare l’identità ed il revanscismo locali. A partire dal 2000 si sono svolte nella capitale Lhasa diverse manifestazioni popolari contro lo strapotere del Partito Comunista Cinese, tutte spente in maniera più o meno violenta. Tali proteste hanno trovato proprio nel buddhismo il valore identitario e giustificativo della nazione tibetana. Cosa, questa, inaccettabile per Pechino, ma che gli permette di identificare in maniera univoca l’avversario da silenziare nella regione.

L’attuale Dalai Lama (letteralmente, “maestro oceanico”) è Tenzin Gyatso. Nasce nel 1935, all’età di due anni viene riconosciuto come manifestazione fisica di Avalokitesvara, il bodhisattva della grande compassione. Nel 1939 viene intronizzato a Lhasa come quattordicesimo Dalai Lama. All’arrivo delle truppe maoiste nel 1950, si rifugia in India, da dove per diversi anni cerca di trattare con la dirigenza cinese a favore del Tibet. Fallito ogni tentativo di dialogo, il XIV Lama si avvicina agli Stati Uniti, sostenendo un’operazione segreta della CIA, la ST Circus, che avrebbe dovuto addestrare decine di migliaia di partigiani tibetani per riconquistare l’indipendenza con la forza. Nel 1959 la rivolta fallisce. La repressione cinese è durissima ed ogni possibilità di ritorno del Lama in Tibet viene spazzata via.

Da allora i rapporti cinesi con il XIV Lama, e con l’intero lignaggio del clero buddhista, non si sono più ripresi. Ad oggi l’intera casta sacerdotale in esilio non viene considerata da Pechino come soggetto religioso, ma agente geopolitico e ispiratore del secessionismo tibetano.

L’ultima sfida del Dalai Lama alla Cina

Non potendo sradicare la fede buddhista dalle popolazioni tibetane, da alcuni decenni Pechino rivendica il diritto di scegliere i suoi capi spirituali. L’esempio più tragico di tale posizione risale al 1995. All’epoca un bambino di sei anni, Gedhun Choekyi, era stato identificato dal clero in esilio come incarnazione del Panchen Lama, la seconda figura più importante della gerarchia buddhista dopo il Dalai Lama. La scelta del profilo non venne accettata dal governo cinese che prese il bambino in consegna e ne selezionò un altro di proprio favore. Ad oggi non si hanno notizie di Gedhun Choekyi, che è considerato il più giovane prigioniero politico della storia.

La questione della nomina dei Lama, come era stato per la questione dei Vescovi cattolici, è fonte di grandi frizioni tra i soggetti coinvolti. Frizioni che rischiano ora di acuirsi, dopo il riconoscimento da parte del XIV Dalai Lama della decima reincarnazione di Khalkha Jetsun Dhampa Rinpoche. In pratica, la terza carica del buddhismo tibetano. Ad indisporre la superpotenza asiatica, oltre la scelta operata senza la propria approvazione, è la figura individuata per ricoprire questa carica fondamentale.

Non è noto il nome del bambino di otto anni nominato l’8 marzo scorso in una cerimonia segreta a Dharamshala, città indiana dove il Dalai Lama vive. Si sa che è uno dei due gemelli della famiglia Altannar, una delle più antiche ed influenti della Mongolia. La scelta mirerebbe, dicono gli analisti, a rivitalizzare la fede buddhista in Mongolia, dove da anni è in rapida decrescita. Non solo, un altro motivo concorre alla forte opposizione cinese alla nomina: il bambino, oltre a quella mongola, ha anche la cittadinanza americana.

La nomina di un cittadino statunitense in un’istituzione che Pechino ritiene separatista, potrebbe aumentare le politiche draconiane nella regione. Il Tibet potrebbe, un giorno, diventare il nuovo Xinjiang.

Riccardo Longhi

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