Dal carcere, voci di donna …

voci di donna

 


Francesca de Carolis


Oggi che arriva la notizia del sessantasettesimo suicidio, vogliamo sottolineare l’importanza della “voci di donna” dal carcere.


Ieri, a Firenze, incontro con scritture e scrittori dal carcere. Bella iniziativa del Collettivo Informacarcere del Comitato Evangelico di Firenze.

Alcune riflessioni, convinta come sono della necessità di portare fuori dal carcere voci.  Sapendo che chi scrive nelle prigioni non lo fa certo per riempire il tempo. Quelle che arrivano da dietro quelle mura, così spesso impermeabili anche al solo respiro, sono sempre parole di verità, e più di una volta ho avuto la bella sorpresa di trovare pagine nelle cui vene scorre quel sangue letterario di cui spesso parla Marcello Baraghini, perché dalla vita vera, senza infingimenti, sono dettate.

Parole che sono sempre grido lanciato al mondo qua fuori, per scuoterne l’indifferenza. E lo sottolineo oggi che, tranne gli “addetti ai lavori”, sembra nessuno voglia ascoltare davvero quel grido. Come se la cosa non ci riguardasse. Invece ci riguarda e come, il carcere è specchio che rimanda immagini, amplificate, di quello che siamo fuori, nel bene e nel male, ma non solo. Il carcere, che è luogo di sospensione del diritto, è luogo dove si sperimenta fin dove si può arrivare, nella violazione dei diritti fondamentali delle persone, nell’indifferenza appunto della società… e i morti dei giorni delle rivolte… e ora questa serie terribile degli ultimi suicidi lo stanno a dimostrare…

Gli scritti dal carcere hanno molteplice valenza, testimonianze preziosissime per aprirci gli occhi, ma sono anche forma di resistenza, resistenza dentro di sé e “resistenza che si forma e cresce cucendo relazioni”, rubo le parole a Vincenzo Scalia, criminologo, nella postfazione a “La portavoce”, libro curato da Monica Sarsini che nel carcere di Sollicciano ha guidato e tirato le fila di un coro di testimonianze di donne, mettendo insieme tante “sconquassate solitudini”.

E oggi che arriva la notizia del sessantasettesimo suicidio, ed è ancora voce di donna che si spegne… voglio sottolineare l’importanza di queste voci di donne, importanti soprattutto perché rare. Sono pochissimi i libri che arrivano dal carcere scritti da donne. Certo, in proporzione sono poche, sono solo il 4, 5 per cento della popolazione carceraria. E poi abbiamo letto piuttosto testi di “politiche”, ché la spinta ideologica non è cosa di poco conto. Ma ci vuole tanto, tanto coraggio, per chi non è abituato a farlo, a prendere una penna in mano e raccontare e raccontarsi, e fare capire quale violenza su violenza è vivere in un posto pensato tutto al maschile…


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La “portavoce” del titolo del testo cui ho accennato è Cosetta Petreni, autrice della maggior parte dei testi raccolti nel libro, ma anche capace di accompagnare il coro di testimonianze di quella umanità dolente… rom, zingare, transessuali, cubane, persone con problemi di droga… Una ballata malinconica, dove tensioni e violenza si intrecciano a momenti di vera umanità.

Per capire di cosa si parla, quando si parla di carcere, bastano poche parole, forti come pugnalate:

“Questo posto enorme, che mi soffoca come la vernice sulla pelle”… “il carcere come un vetro che si è spezzato dentro la carne”.

E si congratula con se stessa, Cosetta, “per essere ancora sana di testa dopo cinque anni trascorsi dentro a questo tunnel nero”, e si chiede: “Chi mi ha dato tanta forza?”

Tanta forza che le ha dato anche il coraggio di scrivere, coraggio che, ne sono certa, anche con la scrittura si è poi alimentato, in una sorta di mutuo sostegno. E lo trova tutto, il coraggio necessario, per raccontare la fatica, le risse (ché fra donne non sono rare), le sopraffazioni, i soprusi e insieme un’umanità inaspettata, “quello che scalda il cuore”. Per accompagnare le voci di altre, come Svetlana che… “lì dentro il pensiero del suicidio è consolazione”…

E tutto questo pure alla fine diventa il proprio mondo.

Vi stupirà leggere di una visita in ospedale, attraversare il mondo esterno sotto scorta, “ma non c’è vergogna per le guardie armate che accompagnano, anzi fanno sentire sicura, protetta, perché loro fanno ormai parte del mio mondo”, che osserva e poi… “non vedo l’ora di rientrare nel mio mondo”. Per quanto terribile. Ricordando il trauma dell’ingresso, la puzza, qualcuno più umano e qualcuno che lo è meno, dove “le detenute trans vengono trattate come spazzatura”, dove si va avanti a forza di psicofarmaci, dove tutto si enfatizza, anche i pregiudizi.

Non è facile prendere una penna in mano e raccontare tutto questo. Molto si deve ai corsi di scrittura organizzati in carcere (e varrebbe la pena di aprire una bella pagina su chi di questo si occupa, in un impegno che sa essere “maieutica”, ma anche mutuo scambio). Così la scrittura, per chi impara a coglierli, offre espedienti per raccontare quello che diversamente non si riuscirebbe a fare. Come spiega Anna Maria Repichini, autrice di una autobiografia, che, riferendosi alla prima notte passata in carcere spiega:

“Mi riesce difficile parlare in prima persona di quella notte e per questo ho usato un espediente narrativo. Ho immaginato di scrivere la sceneggiatura di un film basandomi non tanto sulla mia esperienza diretta, quanto sulle ‘prime notti’ che ho visto passare alle mie compagne di cella in tanti anni”.

Testimone, Anna Maria, a Rebibbia, di tante storie di cui abbiamo letto più o meno distrattamente sui giornali, e che si fa fatica a pronunciare… la mamma che ha ucciso i suoi i bambini… un suicidio… e la cella liscia, che è posto che ti fa impazzire…

In carcere da subito si è messi difronte a una scelta: accendersi o spegnersi.

E lei, Anna Maria, sembra abbia proprio colto tutte le possibilità che le ha offerto la detenzione per accendersi e non per spegnersi.

Il carcere è molto duro da vivere, scrive, e in carcere si può morire.

“Proprio perché me ne sono accorta presto, e non avevo nessuna intenzione di morire, ho trovato delle strategie per vivere”.

Diventando anche un po’ egoista, ammette, perché il carcere insegna soprattutto a combattere per sopravvivere giorno dopo giorno, a diffidare di tutti, “a farmi la mia galera senza commentare, conoscere, sparlare”…

Ma parlare e testimoniare certo sì. Come raccontano le sue pagine che, come accade con voci di donne, sempre sanno allargare lo sguardo su tutte le altre, in un abbraccio che, nel bene e nel male, tutte sempre le sa accogliere.

 

 

 

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