Continuano gli scontri e le violenze nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme, dove Israele ha imposto l’espulsione forzata a quattro famiglie palestinesi il 2 maggio scorso. La situazione è degenerata il 10 maggio quando Israele ha iniziato a bombardare la Striscia di Gaza, causando almeno 35 morti. L’ONU ha espresso preoccupazione per la situazione, invitando Israele a limitare l’uso della forza e a porre fine agli sfratti e alle demolizioni a Sheikh Jarrah e in altri quartieri di Gerusalemme Est, nel rispetto del Diritto umanitario internazionale.
Le tensioni stanno andando avanti da settimane. Prima con le restrizioni imposte alla Porta di Damasco, luogo di ritrovo molto frequentato dai palestinesi, specialmente dopo la rottura del digiuno durante il mese di Ramadan. In quell’occasione, oltre alle forze dell’ordine israeliane, erano intervenuti anche gruppi di ebrei ortodossi che, al grido di “Morte agli arabi”, invocavano l’allontanamento dei palestinesi dalla Porta. Dopo giorni di scontri, le barriere poste a impedire l’accesso alla Porta di Damasco sono state rimosse, ma le violenze hanno soltanto cambiato scenario.
Scontri e proteste a Sheikh Jarrah
Il 2 maggio alcune famiglie palestinesi residenti nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme hanno ricevuto un ordine di sfratto. La mobilitazione è stata immediata, sia per strada, dove sono state organizzate manifestazioni pacifiche, che sui social, anche se molti contenuti e canali di informazione sono stati oscurati. La violenza è esplosa nella notte tra il 7 e l’8 maggio quando le forze israeliane hanno fatto irruzione nella Spianata delle Moschee attaccando i civili in preghiera nella Moschea di Al-Aqsa con proiettili di gomma e granate stordenti. Oltre a violare il diritto internazionale umanitario, che impedisce di attaccare i luoghi di culto, l’operazione israeliana ha anche un alto significato simbolico per aver interrotto la preghiera durante il mese sacro di Ramadan in uno dei luoghi più venerati dell’Islam.
Le violenze contro i manifestanti palestinesi stanno continuando e anche nella giornata di ieri (lunedì 10 maggio) ci sono stati nuovi scontri in cui le forze israeliane avrebbero usato granate, lacrimogeni e proiettili di gomma sulla Spianata delle Moschee. Sarebbero circa 700 i palestinesi rimasti feriti negli scontri di questi giorni, che si sono estesi anche ad altre città della Cisgiordania, dove i coloni hanno appiccato il fuoco ai campi palestinesi. Vicino a Nablus, nel villaggio di Odala, un 16enne palestinese è stato ucciso da colpi di un’arma da fuoco.
Escalation su Gaza
Lunedì 10 maggio la Corte Suprema Israeliana avrebbe dovuto esprimersi sullo sfratto delle famiglie palestinesi, ma la decisione è stata rinviata proprio a causa degli scontri. Va comunque sottolineata l’illegittimità di giurisdizione di Israele sui Territori Palestinesi. Eppure, dal 2002 ad oggi, 43 famiglie sono state costrette a lasciare le loro case ai coloni israeliani.
Nonostante il rinvio della pronuncia della Corte, la giornata di ieri ha registrato il bilancio più drammatico dall’inizio degli scontri. Le proteste dei palestinesi contro la marcia nazionalista israeliana per celebrare l’occupazione di Gerusalemme Est nel 1967 (cancellata proprio per le recenti tensioni) hanno portato a nuovi scontri nella zona di Al-Aqsa. Hamas ha quindi lanciato un ultimatum per far cessare gli attacchi sui civili e allontanare le forze dell’ordine da Al-Aqsa e, in mancanza di risposta da parte israeliana, ha avviato un lancio di razzi dalla Striscia di Gaza, che avrebbe provocato più di trenta feriti. Israele ha risposto bombardando la Striscia, dove al momento si contano almeno 25 morti, tra cui anche bambini.
Espulsioni forzate e diritto al ritorno
La questione delle espulsioni forzate e del diritto di proprietà non è una questione nuova nei Territori Occupati. A Sheikh Jarrah in particolare, furono trasferite 28 famiglie di profughi della Nakba in alloggi costruiti con l’assenso dell’ONU. Queste famiglie strinsero un accordo con la Giordania (che al tempo amministrava Gerusalemme Est), che le avrebbe rese proprietarie di quelle case entro una decina d’anni. Ma con la Guerra dei Sei Giorni nel 1967 e l’occupazione messa in atto da Israele, questo accordo venne meno. In seguito, negli anni ‘70, Israele ha approvato una legge che consente ai discendenti degli ebrei residenti prima del 1948 di tornare nelle proprie case, anche se si trovano al di là dei confini riconosciuti dall’ONU.
Parallelamente, la legge israeliana (la “legge degli assenti” del 1950) vieta ai profughi palestinesi di fare ritorno nei territori ora appartenenti ad Israele. Gerusalemme Est (dove si trova Sheikh Jarrah) è tra i territori che non sono riconosciuti allo Stato ebraico, ma che continuano ad essere occupati e amministrati come se facessero effettivamente parte di Israele. La rivendicazione su quei territori da parte dei coloni, che combattono con ogni mezzo per ridurre la presenza araba e insediarsi al loro posto, ha ulteriormente aggravato la situazione. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, i coloni sono responsabili di almeno 127 attacchi contro i residenti e le proprietà palestinesi dall’inizio del 2021.
Nel silenzio generale Israele continua a violare i diritti dei palestinesi
I nodi problematici di questa storia sono tanti. Innanzitutto la disparità della legge israeliana che consente il diritto al ritorno agli ebrei, ma nega questo stesso diritto ai palestinesi. Inoltre, gli scontri degli ultimi giorni si inseriscono in una dinamica più ampia che coinvolge lo status dell’intera città di Gerusalemme. I palestinesi vogliono difendere la loro sovranità sulla parte est della città per preservare le speranze di una futura soluzione a due stati, in cui Gerusalemme Est diventerebbe la capitale palestinese. È inoltre evidente la sproporzione tra le forze e l’uso indiscriminato della violenza da parte della polizia e dell’esercito israeliano, che è un problema costante durante scontri di questo genere.
I video dei testimoni degli scontri di questi giorni mostrano come i manifestanti siano stati attaccati anche quando non era necessario e con una brutalità immotivata: persone trascinate e bloccate a terra, donne trascinate per i veli e colpite al viso, fedeli attaccati in moschea e arresti sommari. Alle violenze delle forze ufficiali si aggiunge l’intervento non meno aggressivo dei coloni, che hanno libertà di agire praticamente indisturbati. Per non parlare della solita dinamica di botta e risposta tra Hamas e Israele che si ritorce inevitabilmente sui civili di Gaza.
Le azioni di Israele assomigliano a un sillogismo sbagliato che partendo da premesse completamente errate arriva a conclusioni ancora più assurde. E finché la comunità internazionale si limiterà a esprimere preoccupazione o blandi richiami, ci sono poche speranze che la situazione arrivi a una svolta. È anzi probabile che le violenze e le uccisioni non si fermino a breve, considerando che da entrambe le parti le autorità sono in un momento di grande debolezza. In Israele non si è ancora arrivati ad una coalizione di governo stabile, dopo la quarta votazione in tre anni, e in Palestina sono state rinviate quelle che sarebbero state le prime elezioni dopo quindici anni.
Giulia Della Michelina