Di Alice Porta
Un anno di Didattica a Distanza e io ci sono dentro con tutte le scarpe.
Da più di dieci anni lavoro come sostegno alle famiglie nei progetti di affidamento e l’impegno scolastico rappresenta una grossa fetta del mio pane quotidiano. I bambini e i ragazzi che ho in carico sono spesso categorie fragili, in contesti famigliari monoreddito (e talvolta nemmeno quello), spesso figli di stranieri e vivono in quartieri che definire poco stimolanti sarebbe riduttivo. Si può immaginare come la DaD, già difficile per tutti, possa impattare in modo distruttivo su persone dai contesti più disparati.
Il primo fattore esasperante della DaD è che è demotivante: per gli allievi, per i genitori e per gli insegnanti. Io non sono una nostalgica e ritengo che un buon uso della tecnologia sia indispensabile ma credo che la scuola sia ancora una di quelle esperienze dove il contatto, la presenza e il vis-vis siano necessari. Sarà che sono cresciuta col mito filosofico di Maestro e Allievo che passeggiano discorrendo nel giardino accademico ed è da quello scambio costante, anche un po’ sopra le righe, che si crea il dibattito che è fonte primaria di conoscenza e primo nutrimento della memoria. E poi diciamolo: a nessun bambino o ragazzino fa gola andare a scuola. È una roba noiosa. Ti devi svegliare col buio, vestirti, uscire col freddo e i mezzi, ancora assonato ascoltare un sacco di parole ed esporti a prove scritte e orali. Però è l’impegno, l’alzarti fisicamente dal letto, che ti fa prendere la scuola seriamente, che ti ci fa proprio andare. Le assenze in DaD si sprecano, la connessione è traballante, alcuni docenti sono troppo – pardon – anziani per stare al passo con i nuovi strumenti e alla fine buona parte della lezione si perde. Inoltre si pretende da bambini e ragazzi una autodisciplina che ancora non hanno, un capacità di capire limiti e gerarchie che devono ancora apprendere, il fare fronte in modo autonomo ai propri impegni quotidiani. Tutte cose che si imparano proprio a scuola, appunto.
Questo demotiva e succede che per sopperire alle mancanze della DaD spuntino maggiori compiti a casa, almeno secondo il 79,6% degli intervistati da Alma Diploma, e anche qui l’abbruttimento domestico rema contro. Tutto ciò si traduce in noia, nel senso più originario del termine: una condizione di disagio dettata da una percezione di immobilismo, dove non si va né avanti né indietro, accumulando frustrazione e rabbia. Insofferenza, in poche parole. Infatti circa il 72% degli intervistati (Alma Diploma, ndr) ritiene di aver ottenuto una preparazione inferiore alla media e, se parliamo di liceali, la cosa diventa doppiamente grave essendo ad un passo da punti cruciali della vita: l’inserimento nel mondo del lavoro, l’iscrizione all’università e il diritto di voto come prima partecipazione alla vita politica attiva del proprio Paese.
La cosa che però a me procura più rabbia è stata la distanza. Eh no, non parlo di quella fisica. So bene che dal punto di vista psicologico tutta sconnessione (anche fisica) dagli altri avrà un impatto sui giovani ma credo che riusciranno a recuperare, confido nella loro capacità di adattamento. La distanza a cui mi riferisco io è quella sociale e a me, come cittadina, fa doppiamente male.
La DaD è elitaria. Innanzitutto prevede l’esistenza di un pc o di un tablet e la scuola li fornisce ma secondo i dati non riesce a ridurre le distanze, infatti secondo l’Istat: il 12% dei minori resta senza gli strumenti necessari mentre il 45% ha gli strumenti ma inadeguati, traballanti o in condivisione con tutta la famiglia; a questo si aggiunge il sovraffollamento abitativo: l’Italia ha il valore più alto d’Europa con il suo 27% (la media degli altri Paesi è il 15%).
La distanza sociale non riguarda solo i ragazzi ma anche i loro genitori: 853mila nuclei famigliari lavorano fuori dall’abitazione, senza possibilità di smart working e non hanno la possibilità di avere aiuto da parte di nonni o congiunti diretti. Il risultato di questa solitudine sociale e del silenzio politico era più che prevedibile: il 38% delle donne lavoratrici ha compresso o addirittura rinunciato al proprio lavoro per seguire i figli. Questo se ovviamente non ci azzardiamo ad aprire le parentesi circa la disabilità in relazione alla DaD e alle differenze socio-culturali: la DaD prevede una connessione costante attraverso portali di vario genere, anche da parte dei genitori per stare al passo con le lezioni e le comunicazioni, cosa molto difficile in aree di bassa scolarizzazione degli adulti o di barriera linguistica.
La DaD non è una tecnologia aliena che ci è piovuta dal cielo ma è un altro modo di fare scuola e pertanto porta con sé tutte le idiosincrasie che l’istruzione già aveva: vecchia, scollegata dalla realtà, non inclusiva né paritaria; solo che con la DaD questo è molto più visibile. Se un pregio il Covid lo ha avuto è stato quello di mostrarci esattamente dove e quanto sbagliamo nel nostro sistema, scolastico come sociale, e abbiamo un’occasione unica per sistemarlo.
È innegabile che una pandemia globale comporti dei sacrifici e strutture che verranno smantellate e ripesante ma credo che la scuola debba restare una priorità della politica.
A fare fronte a tutto questo diverse generazioni di insegnanti che continuano a fare il loro meglio e ci riescono: nel mio piccolo ho visto disponibilità, voglia di aggiornarsi e di accorciare le distanze il più possibile. Se io non faccio statistica, è anche vero che circa il 32% degli studenti ha dichiarato che una piccola porzione di DaD andrebbe mantenuta anche finita questa crisi socio-sanitaria e il 70% di essi ritiene ottimo il lavoro degli insegnati ed eque le loro valutazioni.
Le nuove generazioni sono veloci, collegate al mondo e il loro concetto di apprendimento e socializzazione è distante anni luce dal banchetto col calamaio e dal panino scambiato a ricreazione e forse va bene così.
Se alla fine avranno perso un po’ di meno e acquistato qualcosa in più, nonostante tutto, il merito sarà stato degli insegnanti e quindi anche a loro: grazie.