Alle soglie dell’inizio del nuovo anno accademico, ritorna in auge uno dei principali dibattiti scaturiti dall’emergenza pandemica sul tema formazione. Interrogativo serio, delicato e profondamente divisivo. La didattica a distanza può configurarsi, per l’avvenire, come una valida alternativa alla didattica in presenza a prescindere da cause di forza maggiore che ne implicano l’impiego? Tra l’estremismo di apocalittici e integrati, occorre affrontare la questione a livello strutturale per tentare di comprendere cosa la DAD possa significare e implicare.
Cos’è l’università? E cosa vogliamo che sia? Probabilmente è questo l’interrogativo attorno a cui orbita qualunque discussione sulla possibile adozione della DAD – didattica a distanza – come alternativa, più o meno permanente, alla classica didattica in presenza. Interrogativo, questo, tanto fondante, orientativo, prospettico quanto obliato – o non debitamente tematizzato – in buona parte dei dibattiti su costi e benefici della didattica a distanza. La questione, già frequentata da qualche anno nelle regioni carsiche degli addetti ai lavori, è approdata con una certa dirompenza sul piano del dibattito pubblico dal 2019. Quando, in pieno stato d’emergenza dettato dalla pandemia, l’abbiamo giocoforza sperimentata su più livelli. La DAD si è imposta, almeno per un certo arco temporale, come l’ineludibile via alternativa ad uno stato di cose che non presentava molti altri spiragli. Dalle scuole primaria e secondaria – con qualche difficoltà organizzativa in più per la prima – all’università.
DAD E UNIVERSITÀ: PROSPETTIVE E ORGANIZZAZIONE
Ed è soprattutto in quest’ultimo ambiente che, in linea con l’andamento della curva epidemiologica e dello stato emergenziale, si è andati incontro a processi di allontanamento o meno dalla, inizialmente transitoria, DAD. Allontanamento o meno di una solo inizialmente transitoria soluzione perché, al netto della volontà – più o meno marcata – di ogni ateneo di tornare alla classica esperienza universitaria in presenza, la questione da logistico-organizzativa si è tramutata in concettuale-prospettica. Cosa, beninteso, in linea di principio non solo lecita ma anche doverosa. Interrogarsi su quello che, di volta in volta, si configura come l’attuale stato di cose in vista di sintesi alternative nel segno della perfettibilità fonda l’incedere dell’uomo del mondo. Motivo per cui, piuttosto che ignorare la problematicità della questione, la si sta tuttora ripensando. Con la speranza che, questa particolare prospettiva sui fatti, possa accendere altri spunti.
Tra quanto di più arricchente vi sia nella vita, probabilmente, figura la predisposizione ad approcciarsi all’altro a partire dalla convinzione di poter trarre qualcosa di più rispetto a ciò che si aveva. Che la conversazione avvenga in piazza, al bar, al mercato, in ufficio o tra le mura universitarie. Ciò, oltre a fondare il dialogo – che, inevitabilmente, si fonda sulla volontà o meno di riconoscere dei diritti al proprio interlocutore – lo significa. In un confronto, il prendere le mosse da una posizione di – più o meno serrata – chiusura compromette non solo gli orizzonti di arricchimento che possano scaturirne, ma anche e soprattutto la possibilità di costruire qualcosa di collettivo. Se si procede da un punto di vista che si pretende assolutistico, poi, risulta del tutto inutile procedere. Se il mondo è già così com’è, bell’e fatto, cosa si dovrebbe aggiungere?
UNIVERSITÀ: IL CUORE PULSANTE DELLA CULTURA DEL PAESE
Ora, teatro di momenti di tale fattura, di spazi di dialogo, confronto, reciproco arricchimento, dovrebbe essere proprio l’università, in quanto cuore pulsante della cultura del paese. Polmone di lavoro teorico e pratico, terra d’incontro di vicende, storie, prospettive di diversa estrazione, provenienza, cromatura, orizzonti. Insomma, di persone. Dal primo caffè della mattina all’ultima sigaretta della sera, a lezione, durante le pause tra un impegno e l’altro, in aula studio. E, ancora, oltre le mura dell’accademia. Perché l’università è questa: un richiamo a volgersi anche al di là del proprio tracciato, affacciandosi, con meraviglia e disincanto, al mondo. È incontro, comunicazione, relazione, complessità.
Da qui si ritorna all’interrogativo che introduce e fonda queste poche, modeste, righe. Cos’è l’università? E cosa vogliamo che sia? Interrogativo attorno al quale si snoda anche la questione della DAD. Occorre chiedersi, infatti, su quale struttura dovrebbe incardinarsi questa particolare modalità d’erogazione della didattica. E se la DAD, a partire da un particolare stato d’eccezione – che l’ha resa oggetto del più recente dibattito culturale – e a prescindere dallo stesso, possa costituirsi come una via alternativa alla didattica in presenza.
DIGITALIZZAZIONE: PRO E CONTRO
Senza dubbio, la digitalizzazione del sistema universitario – in parte, e per altre, forse meno decisive questioni, avvenuta e ancora perfezionabile – potrebbe favorire alcune categorie di studenti. Fuorisede, studenti lavoratori, sportivi avrebbero, sicuramente, la possibilità di incastrare meglio impegni ed esigenze. Non si capisce bene, però, a questo punto, concessa l’alternativa della DAD a queste particolari categorie, chi dovrebbe (e perché?) rimanere vincolato alla didattica in presenza. Fermo restando che nuove categorie di studenti rivendicanti, per i più disparati motivi, il diritto alla DAD potrebbero potenzialmente fioccare all’indefinito. Chi dentro? Chi fuori? E ancora: chi, e perché, ne potrebbe beneficiare? Chi, invece, risulterebbe penalizzato? Al di là di questi dilemmi etico-organizzativi, la questione va comunque riportata alla radice.
E, dunque, all’interrogativo: cos’è l’università? Cosa vogliamo che sia? Ammettendo l’adozione della DAD, cosa diventerebbe? Vista la richiesta a gran voce proveniente, negli ultimi tempi, dal fronte studenti, del mantenimento della stessa a prescindere da qualsivoglia causa di forza maggiore, probabilmente si andrebbe incontro ad un non indifferente svuotamento degli ambienti universitari. Per quanto si possa sperare il contrario, il volume degli ultimi sentori e umori è già, se non un fatto, una spia. Sebbene ciò dipenda, in ultima istanza, dall’attitudine di ogni singolo studente, in non poche occasioni si è registrata una diffusa preferenza per il mantenimento della DAD.
QUESTIONI SISTEMICHE
Normalizzandola, però, non si correrebbe, forse, il pericolo di appiattire l’esperienza universitaria al mero – seppur necessario – percorso ordinario fatto di lezioni ed esami? Di vicende, storie, insomma di persone che – seppur avvezze a questo tipo di relazione – attraverserebbero a distanza il tracciato universitario? Di certo, ciò non impedirebbe loro di comunicare, organizzarsi ed incontrarsi comunque. O maturare la necessità di vivere, quando possibile, l’esperienza universitaria in presenza.
A livello sistemico, tuttavia, almeno in parte si sfalderebbe la struttura essenziale dell’università. Ammesso che quest’ultima si configuri come il cuore pulsante della cultura del paese. Teatro di incontro di esistenze, storie, relazioni, confronti nel senso forte del termine: di corpi. Se non altro perché vivere l’università significa non solo vivere anche l’ambiente universitario – già non riconducibile ad un incontro digitale – ma ancora l’ambiente circostante tout court. Come d’altronde accade – seppur con le dovute differenze – per i soggiorni di studio all’estero. In caso contrario, potrebbero anch’essi ridursi ad un percorso di formazione digitale fondato sul mero binomio – si ribadisce, non meno importante del resto – lezioni-esami. Invece, anche in questo caso, c’è dell’altro. Come con l’altro si entra costantemente – e nei più disparati modi, ambienti, frangenti – in contatto nel vivere l’esperienza universitaria nella sua globalità.
Mattia Spanò