Dacci oggi il nostro fanatismo quotidiano
Pensare al fanatismo solo nelle sue manifestazioni estreme significa pensarlo quando è già troppo tardi, ma ancora peggio è credere di esserne immuni, perché è in questa convinzione che inizia a germinare in silenzio. Si parte sempre da un presupposto semplice: credere di sapere. Credere di sapere cosa è giusto, cosa fare, come farlo, a chi farlo. Presumere di avere la risposta ai veri, o fantomatici, mali del mondo è già un atto germinale del fanatismo. Essere convinti di possedere la verità ci pone in alto rispetto agli altri, quindi superiori ed infine autorizzati ad utilizzare questa presunta superiorità per correggere, educare e se è necessario punire.
Elie Wiesel scriveva: “Il fanatismo è cieco, rende sordi e ciechi. Il fanatico non pone delle domande, non conosce il dubbio: egli sa, pensa di sapere.” Il fanatismo è semplice, spesso lo esercitiamo nel quotidiano senza accorgercene, perché senza ferree, cieche e incrollabili convinzioni ci è difficile vivere. Purtroppo il dubbio non è un semplice esercizio, esso genera la percezione del vuoto, e nessuno è disposto a sentirsi precipitare per troppo tempo, anzi, pur di evitare tale sensazione riusciamo a rendere anche il dubbio un elemento stabile – e utilmente funzionale – dei nostri pensieri; un piccolo e sempre più angusto rifugio delle nostre convenienti incertezze. Quante volte l’immobilismo provocato dal non saper cosa fare diventa un alibi? Una scusa? Una valida ragione per non prendere decisioni? Anche il fanatico del dubbio dovrebbe insospettirci.
Dunque, se pensiamo che il fanatismo si manifesti solo quando un ignorante razzista e xenofobo diventa ministro degli interni facciamo l’errore di non valutare la nostra partecipazione: la presunzione che si manifesta nella nostra rodata indifferenza, che, con leggerezza politica che ci contraddistingue, lo ha messo lì, l’immensa ignoranza che ci abita da sempre nel credere ancora che l’uomo forte possa risolvere non solo i nostri guai ma che ripari provvidenzialmente ai nostri atavici difetti.
Al patetico uomo forte piacciono i nostri difetti, ama i nostri dubbi: egli ci vuole esattamente come siamo: impauriti dallo straniero, minacciati costantemente da nemici sfornati ad hoc alla bisogna, insicuri, abitati dal senso della precarietà, intimamente razzisti, repressi dalla mancanza di prospettive. Il patetico uomo forte ci vuole simili a lui. Non ci vuole diversi; perché dovrebbe? Siamo il suo popolo ideale. In questa arida e patetica zona grigia non solo restiamo fragili ma siamo anche incazzati, e se ci rappresenta uno che dice di essere incazzato quanto noi è tutto grasso che cola, è fatta! Uno come noi è al comando! Tutto ciò di cui dovremmo vergognarci non solo è manifesto, ma è al potere e ha sdoganato il peggio di noi. Quindi perché meravigliarsi se degli imbecilli in un treno inveiscono contro degli extracomunitari? Sono autorizzati dal patetico uomo forte al potere. Perché stupirci se lo straniero di colore è cacciato via? Possiamo finalmente dare libero sfogo alla nostra parte più riprovevole, perché chi ci rappresenta è come noi. Non è certo più il tempo della meraviglia e dello stupore, forse della vergogna, la vergogna che si prova nel comprendere che nonostante tutto non siamo cambiati e che, forse, non cambieremo mai; ma abbiamo troppo odio represso da liberare ancora per provare un tale sentimento, ed è troppo presto per appendere a testa in giù il nostro capro espiatorio. Dovrà prima finire tutto male e solo allora ci servirà un corpo su cui riversare le nostre colpe per sentirci d’improvviso vittime e non più carnefici.
In un’inflazionata frase George Santayana ci ricorda che il fanatismo consiste nel moltiplicare gli sforzi quando si è dimenticato lo scopo; anche qui non è necessario richiamare alla memoria le grandi tragedie della storia per capire che anche nel nostro quotidiano sprechiamo per cieca ostinazione preziose energie e talenti senza chiederci il “perché”, spesso neanche ci chiediamo se siamo felici, se quello che ci siamo imposti è ciò che desideriamo davvero. Eseguiamo gli ordini di un’ imperiosa e marziale coscienza senza ascoltare la voce dell’anima per poi trovarci con polvere tra le mani. Siamo poveri, davvero poveri, spesso anche tristi e firmiamo anche soddisfatti e fieri in calce il contratto con la nostra povertà. Poi però non chiedete al mondo perché ha tanto bisogno di poeti.