Da cittadini a sudditi: le dinamiche di governance disattese nell’Africa subsahariana

Per il FMI il malcontento della popolazione nei confronti delle istituzioni statali resta un fattore chiave nei disordini regionali.

Africa subsahariana

Attraversata da conflitti incessanti e prigioniera di un persistente e diffuso sottosviluppo economico, l’Africa subsahariana rappresenta forse il più chiaro esempio dell’assenza di dialogo politico nel continente. Sebbene i fattori in grado di far degenerare rapidamente l’instabilità interna in lotta armata siano molteplici, un nuovo studio del Fondo Monetario Internazionale ha individuato nella sfiducia verso le istituzioni statali e nella crescente percezione d’insicurezza della popolazione due componenti essenziali del malessere generalizzato che affligge la regione.

L’Africa subsahariana è da sempre un non-lieux, un non-luogo sul pianeta, dove instabilità politica, carestie, colpi di stato e guerre per procura scandiscono inesorabilmente la lenta agonia di un’umanità dolente e rassegnata a riconoscere nessun altra legge se non quella della sopravvivenza.

Nel corso degli ultimi due secoli molti paesi dell’africa subsahariana sono stati al centro dei desideri di potenza di diverse nazioni occidentali che hanno avuto gioco facile nel soggiogare la popolazione locale alimentando subdolamente le loro speranze di libertà e autodeterminazione.

Stati come Burkina Faso, Sudan, Ciad, Niger, Mauritania, Mali  e Repubblica democratica del Congo sono tutt’ora sferzati da conflitti prolungati e crisi umanitarie, in una fase storica nella quale il continente  è diventato un attore geopolitico sempre più decisivo nello scontro a distanza tra la civiltà europea e quella asiatica, lasciando i fragili governi africani alla mercé di un mondo multipolare in cui i rapporti di forza tra le potenze coinvolte mutano continuamente.

In questo caos generale, la classe dirigente autoctona, mediamente impreparata a gestire i numerosi problemi che tormentano la maggior parte degli stati africani, è stata sopraffatta da colpi di stato e lotte tra fazioni rivali, animate da un comune desiderio di sottrarsi all’ingerenza delle potenze occidentali.

Nel rigettare scelte di campo e decisioni politiche eterodirette, frutto della volontà degli stati occidentali, diversi paesi africani sono stati travolti da un processo irruento di dis-occidentalizzazione e progressiva indigenizzazione della politica statale che ha aumentato l’instabilità dei governi e accresciuto le diseguaglianze nella popolazione.

Un nuovo studio prodotto dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dal titolo fortemente evocativo, Fraying Threads: Exclusion and Conflict in Sub-Saharan Africa, ha messo in evidenza proprio questo aspetto.  Secondo i ricercatori del FMI,  la sfiducia degli africani, esclusi dall’accesso a diritti, opportunità e risorse indispensabili per vivere, ha contribuito in modo decisivo a logorare progressivamente  le già deboli istituzioni statali amplificando i disordini nella regione. 

Sfiducia nelle istituzioni e conflitti in Africa subsahariana: il contesto attuale

Dallo studio del FMI, emerge uno scorcio tutt’altro che rassicurante per moltissimi paesi dell’Africa subsahariana.  Nella maggior parte di essi, l’esclusione avvertita dalla popolazione più emarginata è aumentata esponenzialmente negli ultimi anni, complice anche la pandemia e le incertezze globali provocate dalla guerra in Ucraina e dalla ripresa del conflitto tra Israele e il movimento islamista palestinese Hamas. A complicare ulteriormente il quadro, ci sono poi le croniche difficoltà dei governi africani nel fornire servizi pubblici di base tra regioni diverse secondo uno schema improntato all’autosufficienza e all’equità.


E proprio l‘esclusione sistematica della popolazione più emarginata dalla vita civile ha assunto un ruolo di primo piano nella pletora di fattori destabilizzanti in grado di indurre conflitti armati nella regione. L’accesso ineguale all’acqua potabile, al cibo, all’assistenza sanitaria, all’istruzione e alle opportunità economiche è diventato il moltiplicare ideale di un diffuso sentimento di rabbia sociale, concentrando i conflitti in aree dove i servizi pubblici tendono ad essere più limitati o insufficienti.

Del resto, la negazione di un’equa ridistribuzione di servizi e diritti non ha mai trovato una sponda favorevole  nelle preoccupazioni della classe dirigente che ha lasciato covare sotto le ceneri ardenti del disagio sociale, il fuoco di rivolte capaci di annullare in pochi mesi gli sforzi di crescita faticosamente compiuti da una nazione.

In questo scenario, il malcontento generalizzato della popolazione, definitivamente fiaccata dall’atteggiamento repressivo dei governi locali, è stato strumentalizzato da gruppi armati che hanno tribalizzato lo scontro politico e posto in pericolo la già precaria tenuta della maggior parte dei governi regionali.

La sovrapposizione di così tanti fattori negativi ha scatenato conflitti e rivolte armate in tutta la regione dell’Africa subsahariana che può vantare il triste primato di epicentro globale dell’insicurezza alimentare.  Secondo stime del FMI, nel 2023 ben 142 milioni di africani sono stati costretti a fronteggiare situazioni di grave insicurezza alimentare con un aumento del 12 per cento rispetto all’anno precedente. Soltanto nella subregione del Sahel, diventata negli ultimi anni la roccaforte di giunte golpiste, la percentuale di persone colpite da un’insicurezza alimentare acuta è triplicata rispetto al triennio precedente, passando da 3,6 milioni a 10,5 milioni.

Quale futuro per l’Africa subsahariana

Secondo lo studio del FMI le persistenti sfide alla sicurezza e l’escalation militare nell’Africa sub-sahariana hanno profonde implicazioni sia in termini di sicurezza che di preoccupazioni umanitarie con la difficile situazione politica attuale, ma non rappresentano gli unici fattori in grado di generare instabilità.

E’ piuttosto la crisi di fiducia degli africani nei confronti delle istituzioni statali a costituire il principale generatore di dissenso e disagio sociale. A minare sistematicamente la formazione di un sentimento di coesione sociale nella popolazione sono infatti i fallimenti istituzionali e il ruolo strumentale dell’esclusione sociale, politica ed economica.

In paesi come Burkina Faso, Niger, Mauritania e Mali, tutti governati da giunte militari, l’accesso della popolazione alla vita civile è gestito secondo una logica spietatamente selettiva, indispensabile per rafforzare il consenso interno e promuovere la diffidenza verso i paesi occidentali.

L’avviso fornito dai ricercatori del FMI per mitigare gli effetti della disgregazione sociale è di agire tempestivamente sulle cause che li producono, sviluppando una strategia globale capace di migliorare le condizioni materiali degli africani, trattati spesso come  sudditi invece che cittadini.  Dal rapporto emerge un dato particolarmente interessante che lascia ben sperare per il futuro, e cioè che  la presenza della povertà e del sottosviluppo in Africa subsahariana non sempre garantiscono, fortunatamente, il deflagrare di conflitti ad altissima intensità.

Se, in effetti, per un verso questi due fattori sono in grado di esacerbare la miriade di cause di conflitto latenti nella regione subsahariana; dall’altro lato, rappresentano due aspetti sui quali è obiettivamente più facile intervenire, a patto che vi sia una chiara volontà di cambiare le cose. Riguardo a questo punto, però, lo studio del FMI invita a non sottovalutare il problema dell’esclusione della popolazione africana che dovrà essere affrontato seguendo un approccio strategico ben ponderato.

Disinnescare il pericolo di ripercussioni potenzialmente irreversibili nell’ambito della sicurezza in Africa Subsahariana è un compito estremamente complesso ma non più rimandabile. Per tentare l’impresa è necessario adottare una prospettiva molto più ampia in grado di andare oltre la classica assistenza umanitaria, chiaramente insufficiente. Il rapporto del FMI si muove esattamente in questa direzione offrendo un valido supporto concettuale ai politici africani realmente intenzionati a orientarsi nella galassia di problemi che affliggono la loro regione. La sicurezza, infatti, non s’identifica mai soltanto con l’assenza di guerra ma soprattutto con il benessere economico e sociale.

Tommaso Di Caprio

 

 

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