Da “amore” a “cuore”: le parole più abusate nelle canzoni di Sanremo

il ritorno di Giovanni Allevi

A distanza di due settimane dall’inizio, la curiosità per il Festival di Sanremo è tanta. A fomentare questo interesse è stata soprattutto una bizzarra successione di eventi, che in questi giorni ha acceso il dibattito nelle televisioni e nei social. Dalla scelta delle conduttrici alla gaffe di Amadeus alla conferenza stampa, ormai divenuta meme sui social, giungendo infine all’invito di Junior Cally.

Certamente Sanremo è il Festival della canzone, secondo molti specchio della società italiana odierna; d’altro canto è risaputo come la “canzone da Sanremo” sia un prodotto che rispetta dei canoni stilistici e linguistici. L’esempio più eclatante è l’utilizzo ricorrente delle stesse parole, sia nei testi che nei titoli, anno dopo anno.

 

Le parole più ricorrenti nei testi

Amor vincit omnia! Questo potrebbe essere l’emblematico motto. Infatti la parola più usata nei testi delle canzoni di Sanremo è “amore“. È l’amore la costante, ciò che ci si aspetta di trovare ogni anno sul palco dell’Ariston. Insieme alla parola “amor”, si raggiungono le 1.200 comparse in 69 anni di Festival. Segue al secondo posto  l’avverbio “mai“, molto spesso accompagnato ad un sentimento d’amore radicale e senza mezze misure. L’ultimo gradino del podio è sempre stato più variabile: si può notare, nel periodo che va dal 2011 al 2019 un’alternanza tra “solo”, “tutto” e “senza”. Per realizzare un lavoro simile è stato fondamentale il sito “Le parole di Sanremo“, che permette di trovare le parole contenute nei testi, a partire dal 1951 fino al 2019.

 

Alle origini del Festival

Abusare degli stessi termini, degli stessi giochi di parole, avviene da sempre. Profetica fu una poesia del poeta Umberto Saba del 1946 dal titolo Amai, in cui si parla di quelle “trite parole“, che ormai usano tutti: “fiore“, “amore” e “cuore“. Nella prima edizione del Festival nel 1951, la canzone vincitrice “Grazie dei Fior” di Nilla Pizzi così dice nel testo:

Ma se l’amore nostro s’è perduto,
perché vuoi tormentare il nostro cuor?

Compaiono i termini “cuore” e “fiore” (nel titolo), creando la tanto abusata triade che il poeta Saba vaticinava. È evidente, anche ascoltando l’intero brano, che il concetto di amore cambia radicalmente nei decenni e nelle varie edizioni di Sanremo. Scrivere di una donna che, al suo matrimonio, riceve fiori dal suo ex, è indice di un contesto, di un retaggio e di un registro linguistico ben diverso da quello attuale.

Anche i rimandi allegorici sono all’ordine del giorno: riferimenti ad un passato doloroso e l’intenzione di ripartire nuovamente. L’Italia uscita dal dopoguerra cerca e sente urgentemente il bisogno di una ventata d’aria: un completo rinnovamento.  “Vola Colomba” di Nilla Pizzi, vincitrice nel 1952 ne è il più chiaro esempio, auspicando un rinnovato amore per il paese, simboleggiato da un “colomba bianca”.




“Penso che un sogno così…”

Un primo grande cambiamento si ha nel 1958, con la vittoria di Domenico Modugno con la canzone Nel blu dipinto di blu, conosciuta in tutto il mondo come Volare. La rivoluzione di Modugno porta con sé non solo un diverso approccio performativo e canoro che stupì e catturò gli spettatori, ma anche una nuova scrittura testuale, ringiovanita, resa più immediata comprensibile per il pubblico. Modugno fu anche il primo a cantare lasciando trasparire tutte le sue emozioni, retaggio probabilmente dei suoi studi teatrali.

Anche l’anno successivo Modugno si ripresentò al Festival con la canzone Piove, nota anche come “Ciao ciao Bambina”. Una canzone di addio tra due innamorati, tema che ricorre molto spesso (ritorna la parola “amor”); Modugno ha saputo rompere con la tradizione precedente, rinnovandola. Come anche in “Volare” egli alimenta il suo desiderio, spiccando il volo verso il cielo, un anelito di libertà e di amore che non sempre si realizza: Piove  è un esempio di un addio senza lieto fine. Per la prima volta si rompe la retorica del “vissero per sempre felici e contenti”.

Ciao, ciao, bambina, non ti voltare
Non posso dirti rimani ancor
Vorrei trovare parole nuove
Ma piove, piove sul nostro amor

 

“Ciao amore ciao”

Domenico Modugno si inserisce in un contesto sociologico molto più ampio: sono gli anni in cui si delinea il concetto di “cantautore“,  termine che vedrà il suo culmine nei decenni successivi, con la “scuola” genovese e bolognese. La nascita del termine cantautore è legata ad una necessità di presentare i cantanti sotto una veste del tutto nuova, capaci di scrivere e suonare in modo più “serio” (prendendo a piene mani dalla tradizione francese):

Canzoni che abbiano un significato nelle quali cuore non faccia rima con amore

(Corriere d’Informazione, 1960)

Il rapporto tra Festival e cantautori non è sempre stato pacifico: Fabrizio De Andrè ad esempio non partecipò mai a nessuna edizione del Festival. Secondo lui, l’idea di creare una competizione in cui si svendono i propri sentimenti attraverso le canzoni non era la modalità più giusta per misurarsi come cantante e come autore.

Luigi Tenco, 1967, Sanremo

Un cantautore che vi partecipò fu Luigi Tenco: nel 1967 assieme a Dalida cantò Ciao amore ciao (purtroppo dopo quell’esibizione si tolse la vita nel camerino e la sua morte è ancora avvolta nel mistero). Questo brano rappresenta un momento importante per la storia del Festival e della musica italiana. La scrittura di questa canzone vede più correzioni: a Tenco inizialmente non piacque, lontana dal suo modo di scrivere e di comporre.

In una versione provvisoria dal titolo Li vidi tornare, si parla di un bambino che vede i soldati partire e poi i corpi ritornare senza vita. Ciao amore ciao presenta una scrittura testuale e melodica, più moderna, probabilmente più “conforme al sistema Sanremo”. Il tema amoroso ritorna, se pur con un occhio di riguardo verso il futuro e verso i problemi della società, come l’emigrazione italiana:

Saltare cent’anni in un giorno solo
Dai carri dei campi
Agli aerei nel cielo

 

E adesso?

Parlare e cantare d’amore è e sarà sempre possibile, ma in un modo “intelligente”, come dimostrano gli esempi di Modugno e Tenco (e molti altri si potevano fare). In questi ultimi anni un’altra parola si è aggiunta alla triade: “mai“. Un avverbio che può esprimere molte idee: una mancata comprensione del mondo, una totale spensieratezza: la deriva del cantautore, per come era nato.

Non sono stato me stesso mai
No, non c’è niente da capire

Rolls Royce, Achille Lauro, 2019

Le “trite parole” del 1951 sono diverse da quelle del 2019: vi è una coscienza del tutto diversa. L’impegno dell’artista è quello di rendere queste parole vive, fonte di interesse, attingendo dal mondo e dal suo personale vissuto e non avendo paura di mettersi in gioco.

 

 

Jacopo Senni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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